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"Il No ha reso il Jobs Act meno efficace: il collocamento gestito dalle Regioni non funziona"

La bocciatura delle riforma lascia le politiche attive del lavoro materia concorrente tra Stato ed enti locali. Un'occasione persa secondo il presidente dell'Anpal, il giuslavorista Maurizio Del Conte: "La mia Agenzia non potrà intervenire sul territorio, saranno le Regioni a gestire il personale dei centri per l'impiego"

di FILIPPO SANTELLI

07 dicembre 2016

ROMA - "È vero, le politiche attive del Jobs Act erano state pensate con l'idea che le competenze sarebbero tornate allo Stato". Dopo il No al referendum, Maurizio Del Conte guida un'agenzia dimezzata. La riforma della Costituzione doveva consegnare alla sua Anpal, l'Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro, il timone del nuovo sistema centralizzato del collocamento. E invece il voto congela la situazione attuale: il potere di definire gli strumenti per traghettare i disoccupati verso un nuovo impiego resta competenza concorrente tra Stato e Regioni, un modello che funziona male e con enormi squilibri tra territori: "La vittoria del No crea una serie di problemi - riconosce Del Conte - primi fra tutti il destino del personale dei centri per l'impiego e i poteri operativi della mia agenzia". Eppure il giuslavorista della Bocconi, voluto da Renzi come consulente sulle materie dell'occupazione, va avanti: "Entro Natale partirà la sperimentazione dell'assegno di ricollocazione, con le prime lettere inviate ai disoccupati. Spero che il nuovo governo non faccia passi indietro".



Già, finalmente debutta l'assegno, il voucher che dovrebbe aiutare i disoccupati a riqualificarsi e trovare impiego. Solo che criteri e entità sono stati definiti a livello nazionale, ora ogni Regione potrà dire la sua?

"Sarò brutale, non cambia nulla. Tutto quello che abbiamo realizzato finora con il decreto 150 (la parte del Jobs Act dedicata alle politiche attive, ndr), dallo statuto dell'Anpal all'assegno di ricollocazione, è stato fatto in coerenza con la Costituzione vigente, quindi concordato con le Regioni. L'assegno sarà la prima misura nazionale di politica attiva, ma le Regioni erano già coinvolte nella realizzazione: sono loro che ci segnalano quali centri per l'impiego sono pronti, con loro abbiamo definito la piattaforma informativa e le modalità di accreditamento dei soggetti privati che possono formare i disoccupati".

 

Eppure l'impianto generale della riforma era costruito sull'ipotesi di uno strumento uniforme a livello nazionale. Sarà ancora così?

"Non c'è dubbio: il governo voleva andare oltre, portare le politiche attive in Costituzione rendendole materia esclusiva dello Stato. Questa evoluzione non ci sarà, dunque bisognerà far funzionare il sistema per come è strutturato ora".

 

E oggi non funziona: solo il 3% dei nuovi occupati passa dal collocamento pubblico, con disparità enormi tra Nord e Sud...

"Se l'organizzazione delle politiche attive si basa sui confini geografici il risultato è che qui c'è uno strumento di ricollocazione e un chilometro dopo non c'è più, una frammentazione che finora non ha prodotto risultati. Con la riforma creare uniformità sarebbe stato più facile: ora non sarà possibile esportare le pratiche che funzionano in una Regione verso le altre".

 

I 7mila dipendenti dei centri per l'impiego sarebbero dovuti passare all'Anpal, costituire la vostro rete sul territorio. Che ne sarà di loro?

"E' il problema più immediato. Resteranno in capo alle Regioni, che avranno la responsabilità di far funzionare i centri per l'impiego secondo gli standard fissati dall'Anpal. Ma l'agenzia non acquisirà un'articolazione operativa sul territorio".

 

Significa che non potrete intervenire se a Imperia o a Crotone il collocamento pubblico non funziona?

"No, a meno che non si provi che lì non vengono garantiti i livelli essenziali di servizio".

 

Anche l'accreditamento degli enti privati che possono erogare formazione ai disoccupati doveva diventare nazionale, per assicurare degli standard di qualità. Salterà?

"Per l'assegno di ricollocazione, che è una misura nazionale, l'accreditamento sarà nazionale, per gli strumenti particolari messi in campo dalle Regioni resterà regionale".

 

Sembra una Babele peggiore di quella attuale.

"No, perché la funzione di coordinamento dell'Anpal resta: per la prima volta si definiscono degli standard minimi di servizio".

 

Sempre che le Regioni non partano con i ricorsi: il No riporta il pendolo delle competenze decisamente dalla loro parte.

"Lo riconosco, ma non sono mai stato dell'idea che l'Agenzia dovesse sostituire le Regioni. La logica è stata sempre quella della complementarietà: unire fondi e competenze nazionali con quelli locali per moltiplicare il successo delle politiche attive. Il Jobs Act è conforme alla Costituzione è noi continueremo a applicarlo finché non sarà abrogato, non mi fermo certo per paura dei ricorsi".

 

Magari non abrogata, ma senza il governo che l'ha voluta, tra mille difficoltà, l'Anpal rischia di finire soffocata. Si sente più debole?

"Mi sarebbe piaciuto avere alle spalle un governo che si era impegnato su questi temi. Ed è sempre possibile che un nuovo esecutivo o un nuovo Parlamento ci taglino i fondi. Ma spero non avvenga, perché andrebbe contro la tendenza europea di passare dalle politiche passive a quelle attive per il lavoro, definendole a livello nazionale. Sarebbe un passo indietro, io vado avanti".



(La Repubblica)