News

Borse incerte e sterlina in calo nel giorno della Brexit

Partito l'iter formale per l'uscita del Regno Unito dall'Ue, la moneta britannica in netto calo mentre il dollaro rialza la testa. Petrolio in rialzo a causa dello stop alla produzione in un grosso giacimento libico. Oro in discesa. Gli ottimi dati sulla fiducia americana spingono al rialzo i listini asiatici, ma Tokyo chiude poco sopra la parità

 

di FLAVIO BINI

 

29 marzo 2017

 

MILANO Nel giorno dell'avvio formale della Brexit le Borse europee chiudono contrastate. Milano arretra dello 0,26% dopo avere aggiornato in giornata i record annuali. DI segno opposto il resto del Vecchio Continente: Londra cresce dello 0,41%, Francoforte sale dello 0,44% e Parigi dello 0,45%. Seduta a chiaroscuro anche per Wall Street: Il Dow Jones segna alla chiusura delle piazze europee -0,33%, lo S&P500 +0,12% e il Nasdaq +0,04%. I buoni dati sulla fiducia dei consumatori Usa avevano invece contribuire al rialzo le Borse asiatiche, con l'eccezione di Tokyo, che aveva archiviato le contrattazioni con un lieve aumento dello 0,08%. Intanto dalla Fed arrivano indicazioni di un possibile passo più spedito per i prossimi rialzi. Secondo Charles Evans, presidente della federal reserve di Chicago, è giusto prevedere due rialzi dei tassi nel 2017 ma "se le cose procedono ancora meglio" di come stanno andando, quattro strette sono possibili. Stesse indicazioni sono arrivate da Eric Rosengren, presidente della Federal Reserve di Boston ma non membro del Federal

Open market committee, secondo cui le strette dovrebbero essere di un quarto di punto percentuale ogni due riunioni.

 

Sul fronte valutario il dollaro riguadagna terreno dopo le flessoni degli ultimi giorni. La divisa europea passa di mano a 1,054 dollari contro gli 1,0813 della chiusura di ieri a Wall Street. Ma la protagonista di giornata - nel Brexit Day - è ovviamente la sterlina, che accusa il colpo dell'avvio ufficiale del percorso per uscire dall'Ue e scende nei confronti del dollaro, passando di mano a 1,2422

Il conto di Brexit? Per ora lo paga la sterlina. E nel futuro si prospetta la volatilità al comando

 

EUROBAROMETRO Il conto della Brexit: l'uscita fa più male al Regno Unuto che alla Ue

 

Stabile lo spread, in area 177 punti, in virtù del rendimento dei decennali tedeschi sul mercato secondario allo 0,40% in rialzo di un punto base, mentre gli omologhi nostrani viaggiano al 2,12% , in rialzo di due punti base. Il Tesoro ha collocato tutti i 6,5 miliardi di euro di Bot semestrali (prima tranche) con scadenza settembre 2017, offerti oggi in asta. Il rendimento medio è rimasto stabile a -0,294%, il medesimo livello dell'asta di febbraio. Il minimo storico era stato toccato a dicembre 2016 a -0,317%. La domanda ha raggiunto i 10,319 miliardi di euro con un rapporto di copertura in rialzo a 1,59 da 1,52 del collocamento di febbraio.

 

Nell'agenda macroeconomica si registra il buon andamento della fiducia dei consumatori e delle imprese in Italia. Rimane invece invariato a marzo il clima per i consumatori francesi: l'indice si è attestato a 100 punti, lo stesso dello scorso mese di febbraio e in linea con le aspettative. Lievemente positive le statistiche sulle vendite al dettaglio in Giappone. Spinte da autoveicoli a carburanti, sono aumentate a febbraio dello 0,1% rispetto allo stesso mese del 2016. Si tratta del quarto mese consecutivo di crescita, anche se il dato è inferiore alle previsioni (+0,5%) e a quello di gennaio (+1,0%). Su base mensile, l'incremento è pari allo 0,2 per cento. In calo del 2,7% annuo le vendite per la grande distribuzione.

 

Quotazioni del petrolio in rialzo. Il Wti cresce dell'1,3% a 49,12 dollari al barile mentre il Brent avanza a 52,28 dollari al barile. Ad incidere sui rialzi il fermo operativo di un oleodotto libico e l'aumento inferiorie alle attese delle scorte Usa, salite di 867.000 barili a 533,977 milioni, mentre gli analisti attendevano un aumento di un milione. L'oro perde ancora posizione rispetto ai massimi da un mese raggiunto nei giorni scorsi: il lingotto con consegna immediata cede lo 0,35% a 1.251 dollari l'oncia.

 

 

Il conto della Brexit: l'uscita dall'Europa fa più male a Londra che alla Ue

 

Secondo uno studio del Ceps il distacco del Regno Unito significherebbe un punto di pil in meno all'anno. A rischio i 184 miliardi di esportazioni verso il mercato europeo: valgono del 7,5% del prodotto interno lordo britannico. E il pericolo più grande per il governo inglese è la fuga delle grandi multinazionali

 

di MAURIZIO RICCI

 

È la settimana della Brexit. Mentre da Roma, i leader dei 27 membri superstiti della Ue tentano di ridefinire un’idea d’Europa, dalla capitale dell’ex impero britannico Theresa May aprirà formalmente, mercoledì, il processo che porterà la Gran Bretagna (anche se non necessariamente tutta) fuori dall’Unione. Nonostante l’ottimismo di facciata a cui il governo inglese si abbarbica ostinatamente da mesi, è un autentico salto nel buio. Nessuno guadagna dalla ritirata inglese, ma il conto di questo risorgente nazionalismo o di questa nostalgia di insularità, è sproporzionatamente a carico dei sudditi di Elisabetta.

 

Per la Ue la Brexit pesa per circa mezzo punto del Pil dei 27 paesi rimasti nell’arco di dieci anni. Per il Regno Unito le perdite sono pari a quasi un punto del Pil nazionale all’anno. Le cifre le mette in fila il Ceps - il think tank diretto da Daniel Gros - in uno studio per conto del Parlamento europeo, appena pubblicato. Il terreno del divorzio è un interscambio paragonabile, per volume, all’intero commercio Usa-Europa, attraverso l’Atlantico, che è solo di un quinto più grande di quello attraverso la Manica. Ci sono 306 miliardi di euro di esportazioni europee in Inghilterra, contro solo 184 miliardi di importazioni. Ma l’export europeo è in qualche misura marginale rispetto all’economia europea (equivale a circa il 2,5 per cento del Pil) mentre per Londra quei 184 miliardi di beni venduti in Europa valgono il 7,5 per cento del Pil. In altre parole, se Londra chiude il mercato agli europei, il colpo può essere assorbito sul continente, mentre per gli inglesi sarebbe una catastrofe. Tanto più se ci si aggiungono i servizi, quelli della City in testa che, per gli inglesi valgono altri 122 miliardi di export.

 

E i contributi al bilancio comunitario? Il buco determinato dalla partenza inglese è pari, secondo il Ceps, a 9 miliardi di euro l’anno, che però, secondo lo studio, sarebbe abbastanza agevole per Bruxelles recuperare. Se Londra restasse nel mercato unico, le si potrebbe chiedere di continuare a versare la sua quota. Se se ne andasse, e venissero applicate le regole standard del Wto, i soldi arriverebbero da dazi e tariffe, che nel caso dei manufatti, sono pari al 5 per cento circa.

 

Le due ipotesi - Londra nel mercato unico o Londra come un qualsiasi partner Wto - sono cruciali anche per stabilire la forchetta dell’impatto economico della Brexit. Su chi lo subisce, il Ceps non ha dubbi. In rapporto al rispettivo Pil (quello della Ue è cinque volte più grande) la Brexit costa a Londra 10-15 volte di più che ai 27 della Ue (naturalmente, per paesi strettamente legati alla Gran Bretagna, come Irlanda e Olanda il costo è maggiore). Ma proprio perché l’economia inglese è cinque volte più piccola di quella europea, fa più effetto guardare l’impatto in cifre assolute: in soldi, Londra rinuncia ad quantità di soldi due-tre volte superiore.

 

Ma che cifra è? La Brexit costa alla Ue lo 0,11 per cento del Pil in caso di uscita morbida (cioè, con Londra che resta nel mercato unico) fino allo 0,52 per cento in caso di “hard Brexit”, cioè con i rapporti che restano regolati dalle norme Wto. Stiamo però parlando di cifre complessive, cioè di perdite nell’arco di dieci anni. Per la Gran Bretagna, invece, le perdite vanno dall’1,31 per cento, nell’ipotesi soft, al 4,21 per cento del Pil, nell’ipotesi hard, sempre nell’arco di dieci anni. Ma la Brexit ha un effetto a cascata. Se l’uscita dalla Ue (il calcolo lo fa lo stesso Tesoro britannico) dovesse comportare anche la fuga delle multinazionali dal piccolo mercato britannico, le perdite cumulate arriverebbero al 7,5 per cento del Pil, cioè lo 0,75 per cento ogni anno. E’ l’incubo di Downing Street, che ha spinto Theresa May a minacciare ritorsioni, sotto forma di un dumping fiscale, cioè di un taglio tanto aggressivo delle imposte sulle imprese, da compensare l’effetto Brexit. Difficile, tuttavia, in questo caso, che Bruxelles non reagisca con qualche ritorsione, sul piano, ad esempio, delle tariffe doganali. Questa spirale di minacce, ricatti, colpi bassi è il vero incubo – per tutti - della Brexit. Si comincia mercoledì.

 

(25 marzo 2017)

(La Repubblica)