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Derivati, la Corte dei Conti assolve gli ex vertici del Tesoro

La Corte dei Conti dichiara «il difetto di giurisdizione» nel caso dei derivati stipulati dal Tesoro, una vicenda per cui la Procura generale chiedeva un risarcimento da 3,9 miliardi ad ex ministri e vertici del ministero. I contratti sono stati ritenuti dalla sentenza della Corte dei Conti n.346/2018 legittimi e, allo stesso tempo, insindacabili dal punto di vista delle scelte amministrative. «Non si può - si legge nella sentenza - ritenere che la stipulazione dei contratti derivati in contestazione integri gli estremi di una violazione di legge». Inoltre «la Corte dei Conti può e deve verificare la compatibilità delle scelte amministrative con i fini pubblici dell'ente, ma, per non travalicare i limiti esterni del suo potere giurisdizionale, una volta accertata tale compatibilità, non può estendere il suo sindacato all'articolazione concreta dell'iniziativa intrapresa dal pubblico amministratore, la quale rientra nell'ambito di quelle scelte di merito di cui la legge stabilisce l'insindacabilità».

 

Sono stati dunque assolti l'ex responsabile del debito pubblico Maria Cannata (assistita dagli avvocati Giuseppe Iannaccone e Riccardo Lugaro), l'ex direttore generale Vincenzo La Via, gli ex ministri Domenico Siniscalco e Vittorio Grilli, oltre alla banca Morgan Stanley (difesa tra gli altri da Antonio Catricalà). Al centro delle contestazioni c'era l'inserimento nel contratto con Morgan Stanley di una specifica clausola di uscita anticipata dai derivati, l'Ate. Sim

 

In particolare, per il danno alle casse dello Stato da 3,9 miliardi, erano chiamati a rispondere la banca per 2,7 miliardi, e, per l'importo restante, gli alti dirigenti del Ministero in relazione alle funzioni svolte. A Maria Cannata era chiesto un risarcimento di quasi un miliardo di euro (982mila euro). La sezione giurisdizionale della Corte, nel motivare la sentenza, decreta che c'è difetto di giurisdizione per tutti i convenuti. Dal lato della banca manca «il rapporto di servizio» con il Tesoro che è tra i presupposti della giurisdizione della Corte. «Non viene in rilievo un inserimento della banca a qualsiasi titolo nell'apparato organizzativo pubblico», «non viene in rilievo un'investitura di funzioni pubbliche», «non viene in rilievo una relazione funzionale tra Morgan Stanley e l'amministrazione pubblica». In conclusione «non viene, quindi, in rilievo una fattispecie di responsabilità amministrativa, bensì una forma di responsabilità civile». Il difetto di giurisdizione nei confronti degli ex vertici del Tesoro, invece, è legato «all'insindacabilità nel merito delle scelte discrezionali». La legge, infatti, «non stabilisce un divieto per lo Stato di concludere contratti derivati funzionalmente volti alla ristrutturazione e gestione del debito pubblico».

 

Certamente, nota la Corte, l'insindacabilità delle scelte discrezionali «non è assoluta, ma relativa, e ristretta». L'accertamento del giudice è infatti previsto entro i confini dell'eccesso di potere, caso che la Corte non riscontra in questa vicenda. «A tutto voler concedere, pur ammettendo, nonostante le contestazioni dei convenuti che - spiegano i magistrati - escludono addirittura l'esistenzza di un danno, che l'attività in derivati, oggetto del presente giudizio, abbia arrecato una perdita patrimoniale per la pubblica amministrazione con la conseguenza che, se quei contratti non fossero stati stipulati, sarebbe stato evitato un ingente esborso di denaro pubblico e che le operazioni in contestazione sono risultate non convenienti, deve osservarsi che la valutazione della congruità del mezzo rispetto al fine deve esser effettuata non ex post, ma ex ante. Occorre tenere conto, cioè, dell'insieme delle circostanze, del contesto storico, economico e finanziario, nel quale le scelte operate dall'amministrazione si vanno a inserire».

 

Nel momento della scelta del Tesoro di stipulare i derivati, che ha portato al versamento, avvenuto tra fine 2011 e inizio 2012, degli oltre 3 miliardi dal ministero a Morgan Stanley, secondo la Corte, «si manifesta l'esigenza di gestione e ristrutturazione del debito pubblico, nel quadro di una valutazione che contempla l'obiettivo della 'minimizzazione del costo del debitò perseguito 'compatibilmente con l'esigenza di protezione dai rischi di mercato e di rifinanziamentò, nonchè del buon funzionamento del mercato secondario dei titoli di Stato». In conclusione «il comportamento dei convenuti, per le conseguenze che sono derivate dalle strategie di gestione del debito pubblico, non appare irrazionale e immotivato»

 

2018-06-15 16:40:09

(Il Messaggero)