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Camera ci sono rimasti i fantasmi

Allo scoccare dei suoi cento anni, l'Aula di Montecitorio si svela desolatamente vuota. Di persone, di leggi, di vita. Implacabili le statistiche: due provvedimenti nei primi cento giorni di governo, dieci sedute al mese. Ed è solo la punta dell'iceberg di una centralità perduta

di Susanna Turco

13 novembre 2018



Siamo arrivati, cent’anni dopo, al bivacco sui divanetti. Fuori dall’Aula - più o meno sorda e grigia - direttamente fuori. Ma che ci fosse un difetto originario di prospettiva, un pervicace torcersi delle cose nel loro opposto, poteva essere chiaro fin dall’inizio. Quando, inaugurando la nuova Aula della Camera, il 20 novembre 1918, Giuseppe Marcora, presidente della Camera dei deputati del Regno d’Italia, cominciò il suo discorso «Per la vittoria», conquistata due settimane prima nella Prima guerra mondiale, con queste parole: «Onorevoli colleghi, l’Italia è compiuta». Complimenti per la previsione. Quel giorno, raccontano le cronache dell’epoca, anche le tribune in cima all’Aula erano piene fino all’orlo. Rappresentanti dei mutilati di guerra, delle terre redente, gente comune in attesa per ore per assistere all’evento. Cent’anni dopo, Montecitorio, pur avendo in teoria nell’era giallo-verde forse più senso che mai, si ritrova di fatto svuotato: di persone, di leggi, si direbbe di vita.



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I deputati si aggirano come sperduti in corridoi rimbombanti. Le statistiche hanno detto che i più assidui sono 90. Il simbolo di questa epoca può essere il velista Andrea Mura: eletto con i Cinque Stelle, in piena estate ha chiarito essere più utile fuori del Parlamento che dentro. Una Camera zombie. Dove capitano settimane nelle quali non si sappia cosa scrivere sugli ordini del giorno (esempio: la terza di luglio. Altro esempio: la terza di settembre). Le statistiche dicono infatti che questo è il Parlamento più inoperoso della storia repubblicana: e lo è, per paradossale che possa sembrare, nel momento in cui a conquistare la maggioranza è proprio un movimento che predicava di aprire i Palazzi come «una scatoletta di tonno».

I numeri sono implacabili: due leggi votate nei primi cento giorni del governo, il decreto dignità e il mille proroghe, sedute al ritmo di dieci al mese (67 tra metà marzo a metà ottobre, i dati più recenti), 15 leggi definitivamente approvate, di cui 9 conversioni di decreti legge. Ma forse, anche viste e considerate le circostanze eccezionali di quest’avvio di legislatura (quasi novanta giorni senza governo) vi è anche da dire come quest’esiguità sia forse solo la punta dell’iceberg - per un universo che più che mole di numeri sembra aver perso centralità .



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Nell’emiciclo costruito cent’anni fa sul progetto dell’architetto Ernesto Basile, quell’Aula che Benito Mussolini, appena nominato capo del governo, presentando la sua squadra il 16 novembre del 1922 chiamò «sorda e grigia» minacciando (come poi avrebbe fatto) di trasformarla in un «bivacco di manipoli», si aggirano infatti parlamentari che, dopo aver trionfato a cavallo del mito dell’anticasta, mangiano sì tutti insieme alla mensa dei dipendenti invece che al ristorante dei deputati per far vedere che non sono omologati (ma vi sono precedenti anche in questo senso: dai deputati di Rifondazione comunista agli ex missini), si stupiscono tuttavia che i funzionari del Palazzo - incarnazione del male assoluto da scardinare, secondo la logica grillina - oltre a dar loro tutti gli strumenti e il supporto necessari a lavorare, non gli scrivano anche materialmente i discorsi da pronunciare, in Aula e in Commissione: «Ma come, non ce li scrivete voi i discorsi?», è stata la domanda stupita e quasi delusa della scolaresca neodeputata a Cinque Stelle. Voci che il Palazzo fa rimbombare come un tam tam, di quelli invisibili e spietati.

Ma, appunto, la torsione è come iscritta nella storia di un palazzo costruito là dove una volta, in epoca romana, si cremavano gli imperatori (Ustrinum), e ampliato secondo la visione novecentesca e laica di un architetto che aveva immaginato con un uso tutto diverso, a partire dall’ingresso. Anche il film della fin qui breve legislatura lo racconta. Pochi i giorni lavorati, pochissime le leggi discusse: d’altra parte, i primi cento giorni della legislatura passano con i deputati privi pure di uffici assegnati, assisi perciò principalmente sui divanetti del Transatlantico e al massimo intenti a presentare proposte di legge (dopo tre mesi se ne contano 1.259). Ma soprattutto un approccio generale davvero inedito.

Lo si vede ad esempio nei question time (le interrogazioni a risposta immediata ai membri del governo): in questa legislatura sono i primi della storia con claque e applausi a scena aperta a sostegno della maggioranza.

È fine giugno, Matteo Salvini viene interrogato sui beni confiscati ai Casamonica dal leghista Gianluca Vinci che, al termine, dopo ripetuti applausi da parte dei deputati della maggioranza, si dichiara «sinceramente soddisfatto» della risposta: «Finalmente, signor Ministro, dopo tanti anni, nel suo scranno è tornato a sedersi un uomo che, come lei, tiene al proprio Paese e che rende onore al suo Ministero. I cittadini aspettavano veramente da tanto tempo questo momento, e la ringrazio ancora». Più soddisfatto di così. È lo stesso Salvini a stupirsene: «È la prima volta che al question time c’è più maggioranza che opposizione». Ed ecco, da strumento di controllo sul governo l’interrogazione diventa strumento di elogio del governo.

Lo stesso trattamento, manco a dirlo, tocca anche a Luigi Di Maio. Interrogazione a risposta immediata sulle pensioni, di Sebastiano Cubeddu e Davide Tripiedi dei Cinque Stelle. Alla fine Tripiedi dichiara solenne al microfono: «Siamo veramente soddisfatti della risposta e me lo faccia dire, Ministro, siamo veramente orgogliosi di lei. Perché glielo dico proprio da giovane, figlio di una gioventù distrutta da una politica che ha pensato solo ai propri tornaconti. Finalmente il Parlamento e il Ministro si occupano delle ingiustizie: stiamo ripristinando un po’ di giustizia sociale, Ministro». Applausi: ed è fine giugno. Non si è ancora cominciato a lavorare, i presidenti di commissione sono stati appena nominati: ma la «giustizia sociale» è già un pezzo avanti.

Altro caso che spiega bene come lavorino oggi alla Camera è nella discussione del decreto sul Tribunale di Bari. Siamo a metà luglio: è il primo provvedimento che ha forza di legge, è la prima rissa della legislatura, con schiaffoni tra Fratelli d’Italia e leghisti. Ma se il parapiglia è un grande classico delle Aule parlamentari di prima, seconda e terza Repubblica, a essere nuove sono certe modalità di presenza.



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L’aplomb di Togliatti. Gli zoccoli della Bonino. I congiuntivi di Bossi. Le stagioni di Montecitorio viste da un giornalista in prima fila. «Ricordo l’abilità dialettica di Saragat e quella calma di Moro, che ti parlava come a un paziente. A porre fine all’era dell’abito scuro fu Oscar Mammì, con un maglioncino. Poi arrivarono i jeans. E infine Cicciolina»



Il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, ripetutamente chiamato in causa durante la seduta per dare spiegazioni sulla scelta del nuovo palazzo in cui collocare il Tribunale, invece che presentarsi tra i deputati scrive un post su Facebook. Comodo, no? A leggerlo in Aula è, integralmente, il deputato di Leu Federico Fornario, dal telefonino. Mentre, dai banchi del governo, il sottosegretario Vittorio Ferraresi, forse dimentico dell’esistenza dell’articolo 68, cioè dell’insindacabilità delle opinioni espresse dai parlamentari nell’esercizio delle funzioni, dice di aver sentito «inesattezze gravi» di cui ciascuno «si prende la responsabilità». Come se dall’Aula di Montecitorio si dovesse finire in tribunale. «È un simulacro di ministro della giustizia», attacca l’azzurro Francesco Paolo Sisto, avvocato barese. «Un avatar», dicono da Fratelli d’Italia. Copie digitali. Del resto anche l’opposizione non è, di media, così vivace: sembra, anche lei, una copia sbiadita di se stessa. Una morta vivente.

Obiezioni sbilenche, approssimazioni, pasticci. Dell’Aula di Montecitorio si fa volentieri a meno. E del resto, come si diceva, la direzione sta nell’incipit. Inaugurata con la prospettiva di celebrare il trionfo degli ideali risorgimentali, già un anno dopo nel 1919 l’Aula avrebbe visto approvare la riforma elettorale proporzionale, poi i nuovi regolamenti parlamentari con l’introduzione del sistema dei gruppi politici: insomma il rapido superamento di se stessa, fino allo schianto della marcia su Roma. Adesso, nel 2018, in piena estate, c’è chi - a proposito di utilizzo degli spazi - è arrivato a chiedere un’area di meditazione per fare yoga direttamente a Montecitorio e «consentire di superare il pensiero superficiale e inutilmente violento del dibattito politico».

Mentre, sempre nell’estate 2018, uno dei provvedimenti più significativi per segnare la linea è quello portato avanti con strenua determinazione dallo stesso presidente della Camera, Roberto Fico: il taglio dei vitalizi agli ex parlamentari. Che si sostanzia però, ancora una volta, non in un provvedimento d’Aula: avviene tutto attraverso una delibera dell’Ufficio di Presidenza. E viene poi celebrato direttamente in piazza. In piazza Montecitorio, un po’ come la cremazione degli imperatori in epoca romana. Senza passare dall’Aula, appunto.

Non è questa, in fondo, l’essenza del Casaleggio-pensiero? Recita parlando con un quotidiano l’imperatore del Movimento Cinque Stelle, il presidente dell’Associazione Rousseau, Davide Casaleggio: «Oggi grazie alla rete e alle tecnologie esistono strumenti di partecipazione decisamente più democratici ed efficaci in termini di rappresentatività popolare di qualunque modello di governo novecentesco. Il superamento della democrazia rappresentativa è inevitabile». E prevede, nella stessa intervista, che «al Parlamento resta il suo primitivo e più alto compito: garantire che il volere dei cittadini venga tradotto in atti concreti e coerenti. Tra qualche lustro è possibile che non sia più necessario nemmeno in questa forma». Quali anticorpi l’istituzione propone? Ancora una volta, è il presidente della Camera Roberto Fico a rispondere: «Credo fortemente nella centralità del Parlamento e ritengo che il suo operato vada valorizzato nell’interesse collettivo», ribadisce di fronte alle parole di Casaleggio. E in pratica che fa? Riunisce i presidenti delle commissioni parlamentari, e fa sapere che intende proporre alla giunta del regolamento una rivoluzionaria novità. Questa: presentare gli emendamenti solo in formato digitale, con gran risparmio sulla spesa per la carta. Orgoglio Camera.

Per chi resta, almeno. Secondo i dati di Openpolis, gli eroi quasi sempre presenti nei lavori d’Aula sono in Novanta. Tipo Termopili. Una istituzione semideserta, nella quale il deputato velista Andrea Mura, 96 per cento di assenze, ha buon gioco a rivendicare: «Sono più utile alla patria e ai destini degli oceani andando in barca a vela. E poi noi Cinque Stelle a Montecitorio siamo più di 200. Io a che cosa servo, visto che la maggioranza ce l’abbiamo già ampiamente?». Espulso dal M5S e dimesso da deputato con una rapidità degna di miglior causa - in una Camera dove il decreto per Genova arriva 40 giorni dopo l’approvazione in Consiglio dei ministri.

È vero che, nella seconda Repubblica, la consuetudine di bocciare le dimissioni dei parlamentari faceva sì che anche gli incompatibili conservassero la carica. Ma, come si vede, quanto ai drammi e ai dilemmi dello stare o non stare in Aula, da qualsiasi Aventino si è lontanissimi.



(L'Espresso)