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Le lezioni della Brexit e gli errori da evitare

di Roberto Castaldi

16 gennaio 2019

 

Il Parlamento britannico ha bocciato l’accordo faticosamente negoziato per 2 anni con l’UE per un’uscita regolata, che salvaguardi la pace in Irlanda del Nord. A quasi 3 anni dal referendum sulla Brexit il Regno Unito ancora non sa quello che vuole, come nota il Comunicato del Movimento Federalista Europeo. Non c’è una maggioranza favorevole a nessuna delle opzioni possibili: uscita senza accordo (hard Brexit), decisione del Parlamento o nuovo referendum per rimanere nell’UE, uscita con l’accordo negoziato, uscita rimanendo nel mercato unico (modello Norvegia), o almeno nell’unione doganale (modello Turchia). Questa situazione di impasse, caos e paralisi ci offre diverse importanti lezioni, che dovrebbero metterci in guardia rispetto ad alcuni pericolosi errori da evitare.

 

La prima lezione riguarda i limiti della democrazia diretta. Singoli atti legislativi su temi specifici sono più essere adatti ad una scelta binaria Sì/NO di questioni molto complesse, come per l’appunto l’appartenenza all’Unione Europea. I cittadini britannici hanno votato per la Brexit senza sapere cosa significasse e comportasse. La campagna elettorale è stata dominata da fake news e promesse assurde senza una vera disamina dei dati e delle prospettive reali.

 

Questa lezione è molto importante per l’Italia, dove si discute una riforma costituzionale volta a introdurre l’istituto del referendum propositivo, cui alcuni vorrebbero togliere i vincoli attualmente previsti per quelli abrogativi, che sono esclusi su una serie di materie, inclusi i trattati internazionali. Creare la possibilità di un referendum propositivo sull’uscita dall’UE o dall’Euro sarebbe il corrispondente della promessa di David Cameron di indire un referendum sulla permanenza nell’UE in caso di vittoria dei Tories alle elezioni. I commentatori la presero per un’abile mossa tattica volta a tenere insieme il partito conservatore in vista di elezioni che al massimo avrebbero portato a una riedizione della coalizione con i liberal-democratici (ostili al referendum). Sappiamo quale fu il risultato finale: i tories vinsero, Cameron fu costretto a indire il referendum, fece una tiepida campagna per il Remain, perse e uscì malamente di scena. Se la riforma costituzionale sul referendum consultivo non mantenesse gli attuali limiti rispetto a una serie di materie, basterebbero 200.000 firme e il 12,5% + 1 degli elettori (la maggioranza con un quorum fissato al 25%) per uscire dall’UE o dall’euro. Una minoranza piuttosto ridotta potrebbe prendere una decisione dalle conseguenze epocali per tutti. Borghi, Bagnai e simili non aspettano altro. Inoltre, già la sola possibilità legale di un simile referendum aumenterebbe il rischio di uscita, e potrebbe avere pesanti conseguenze sui mercati rispetto al costo di finanziamento sia del debito pubblico che delle famiglie e delle imprese.

 

La seconda lezione riguarda il mito nazionalista della sovranità una e indivisibile. I negoziati di questi anni hanno mostrato che il mantra del "riprendere il controllo" dei Brexiteers era una menzogna. Il livello di interdipendenza è tale che nessuno Stato europeo può essere sovrano e avere alcun significativo controllo. La debolezza negoziale del Regno Unito è lo specchio dell'asimmetria nei rapporti di forza, e nell'interdipendenza con l'Unione. Lo stesso vale nei confronti delle grandi potenze mondiali, come USA, Cina, Russia, e in prospettiva l'India - tutti Stati di dimensioni continentali. La scelta britannica è tra far parte della famiglia europea o accelerare il proprio declino e finire per fare il satellite di una delle potenze mondiali. La perdita di valore della sterlina - e quindi dei risparmi e del potere d'acquisto dei cittadini britannici - e dell'economia britannica sono lì a ricordarcelo. La prospettiva di un caos politico con il rischio della secessione della Scozia - dove al referendum vinse nettamente il remain - e della guerra civile in Irlanda del Nord con la minaccia di una ricostituzione dell'IRA in caso di ritorno ad un confine fisico con l'Irlanda, dicono tutto della debolezza degli Stati nazionali europei, che stanno in piedi grazie ai benefici economici e politici dell'integrazione europea.

 

Questa lezione sembra essere stata compresa dalle opinioni pubbliche e dalle classi politiche europee, visto che perfino Le Pen e Salvini non parlano più di Frexit o Italexit. Ma il loro obiettivo di svuotare l'Unione dall'interno, riducendone competenze e poteri non è meno dannoso e pericoloso per il futuro di tutti i cittadini.

 

La terza lezione riguarda il ruolo della classe politica nel funzionamento delle istituzioni democratiche. Quella britannica non ha ancora avuto il coraggio di riportare il dibattito alla realtà dei fatti e di prendersi la responsabilità di una scelta seria nell’interesse del Paese. Vi è una maggioranza parlamentare contro l’uscita senza accordo. Ma piuttosto che garantire una soluzione utile al Paese facendo un accordo con i Tories moderati sulla Brexit, Corbyn preferisce sfruttare il caos e la divisione interna ai Tories per cercare di far cadere il governo e ottenere le elezioni. Se questo portasse ad un’uscita senza accordo con conseguenze catastrofiche soprattutto per i lavoratori britannici si potrà sempre scaricare la colpa sull’inadeguatezza del governo conservatore. Tutto logico in una prospettiva meramente di parte. Ma l’interesse generale è un’altra cosa. Ancora peggiore il comportamento del Partito Conservatore, che ha determinato la Brexit, guida il governo e ha la responsabilità decisiva al riguardo. Ma preferisce dilaniarsi internamente, vittima delle ambizioni dei suoi vari aspiranti leader a succedere alla May, una volta che il caos Brexit sia stato in qualunque modo superato, e avendo quindi lasciato a Theresa May il ruolo di storico capro espiatorio, rispetto alle conseguenze negative per il Paese. Meglio non parlare dello UKIP (l'alleato del M5S al Parlamento europeo), che per primo ha chiesto la Brexit, ma non ha saputo fornire nessun tipo di idea o proposta su come realizzarla. I liberal-democratici sono l'unico partito ufficialmente contrario alla Brexit, e potrebbero avere un risultato interessante in caso di elezioni anticipate, con il significato di una scelta sulla Brexit.

 

La quarta lezione riguarda il ruolo cruciale del tempo e del contesto. Il referendum sulla Brexit si è svolto quando il Regno Unito era il Paese che cresceva di più nell’UE, mentre a seguito del risultato del referendum è ora quello che cresce di meno. E le previsioni delle conseguenze economiche della Brexit una volta che si sia effettivamente avuta sono pessime, addirittura catastrofiche in caso di uscita senza alcun accordo. Oggi la paralisi britannica è favorita dal fatto che tanto i fautori di una hard Brexit quanto quelli del Remain sono obbligati a boicottare qualunque accordo. Perché solo in assenza di un accordo sarebbe possibile o una hard Brexit, o la decisione di invertire rotta e rimanere nell’Unione. In sostanza sono obbligati a giocare al tanto peggio tanto meglio, che è l’unico modo per sperare di giungere alle opzioni che preferiscono.

 

Di fronte a questa situazione l’Unione deve evitare l’errore di farsi carico dei problemi interni britannici. Se si vuole aiutare il Regno Unito a prendere finalmente una decisione non bisogna concedere più tempo per i negoziati per l’uscita. Più tempo permetterebbe solo di rimandare le scelte e manterrebbe la situazione attuale, in cui hard brexiteers a remainers votano contro qualsiasi accordo. Va tenuto fermo il termine del 29 marzo per l’uscita del Regno Unito dall’UE o per la revoca unilaterale da parte britannica dell’art. 50 sul recesso. Un’estensione dei tempi comporterebbe la partecipazione britannica alle elezioni europee di maggio, incidendo sugli equilibri politici e le nomine dei vertici istituzionali UE per la prossima legislatura da parte di un Paese in uscita. Meglio approvare un mini-accordo di uscita, che preveda il contributo britannico al bilancio già incluso nell’accordo negoziato finora e che tutto rimanga come attualmente per un lasso di tempo delimitato in cui completare i negoziati sul divorzio definitivo e il futuro rapporto tra Regno Unito e UE, con la possibilità di proroghe ulteriori finché non si trovi un accordo adeguato per evitare un confine fisico tra Irlanda e Irlanda del Nord.

 

Sebbene nei fatti non cambierebbe nulla, legalmente il Regno Unito sarebbe fuori dall’Unione e impossibilitato a revocare unilateralmente l’art. 50 sul recesso. Per rientrare dovrebbe fare domanda di adesione e aprire un nuovo negoziato, in cui ovviamente verrebbero messi in mora tutti gli opting out e i privilegi che aveva ottenuto. In sostanza l’uscita legale del Regno Unito dall’UE il 29 marzo spingerebbe i sostenitori del Remain a convergere con i Brexiteer moderati per un accordo che preservi i migliori rapporti possibili con l’UE. Ciò porterebbe probabilmente a rimanere nel mercato unico o almeno nell’unione doganale, le due opzioni che più garantiscono la pace in Irlanda del Nord e il benessere economico britannico ed europeo.

 

Non va infine dimenticato che se il Regno Unito ora decidesse di rimanere, con un’opinione pubblica così fortemente spaccata e polarizzata sul tema, il rischio di riaprire la questione dopo pochi anni sarebbe altissimo. Non solo, ma qualunque avanzamento dell’integrazione europea troverebbe inevitabilmente l’opposizione e il veto britannico. Mentre già solo la prospettiva della Brexit ha permesso passi avanti sul piano della difesa, come l’avvio della Cooperazione strutturata permanente, e proposte più avanzate della Commissione in materia di integrazione economica, sulle migrazioni e sul piano istituzionale. L’incertezza è un danno per tutti i cittadini, europei e britannici. È necessario risolvere la questione Brexit prima delle elezioni europee, per permettere l’avvio della riforma dell’UE dopo le elezioni europee, sulla base delle indicazioni dei cittadini europei.

 

@RobertoCastaldi

(L'Espresso)