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Ripartenza a macchia di leopardo, cosa c'è dietro le cifre dell'economia italiana

 

Dossier. Il Paese che prova a uscire dalla lunga recessione non è tutto uguale. Questo spiega la frenata del Pil. Analisi su consumi, export, credito e Mezzogiorno

 

di VALENTINA CONTE e ROBERTO MANIA

 

13 febbraio 2016

 

Ripartenza a macchia di leopardo, cosa c'è dietro le cifre dell'economia italianaAuto nuova e cena fuori ma è gelata sui redditi. I consumi delle famiglie sono ripartiti? Gli ultimi dati Istat di dettaglio, relativi al terzo trimestre 2015, dicono di sì. Seppur timidamente: +0,4% sul trimestre precedente, +1,1% sull'anno passato. Il punto è dove e come. Molto bene il settore auto. E gli altri? "Abbiamo chiuso il 2015 a +3%, un buon anno grazie soprattutto all'Expo, al bel tempo, al turismo, alla rivalutazione del dollaro, al terrorismo che ha deviato i flussi verso il nostro Paese", analizza Lino Stoppani, presidente Fipe (pubblici esercizi). Bar, ristoranti e alberghi pieni? "È cresciuta la tendenza al "fuori casa". E il turismo è andato bene, un'annata importante, di svolta dopo tanta crisi". L'Istat però ora registra un Pil 2015 più basso delle attese del governo. "Forse a causa della coda d'anno, un trimestre senza traino Expo". Risultati in chiaroscuro invece per l'abbigliamento. "Il 2015 si è chiuso con un modesto incremento dell'1,4%, con il mese di dicembre positivo per gli accessori, un timido risveglio dopo un lungo periodo di crisi per un settore in cui il rinvio dell'acquisto è assai facile quando l'economia va male", racconta Renato Borghi, presidente di Federmoda Italia. "I saldi però non hanno confermato i numeri 2015 e francamente ci aspettavamo di più con un dato nazionale a -0,7% e situazioni a macchia di leopardo: bene Lombardia, Veneto e Piemonte a +2,5%, male la Sicilia in negativo". L'effetto 80 euro c'è stato? "Il sentiment delle famiglie è positivo, ma il reddito disponibile netto non è cresciuto, sebbene il numero degli occupati stia aumentando. Non siamo ancora di fronte a un consolidamento della ripresa dei consumi, questa è la verità. Ma solo a un flebile segno di inversione di tendenza che speriamo prosegua anche nel 2016".

 

Hi-tech e aerospazio ci salvano sui mercati. C'è una nuova polarizzazione tra le imprese italiane, non più grandi-piccole, non più pubbliche-private, bensì tra chi esporta e chi dipende prevalentemente dal mercato domestico. Le prime hanno alimentato il Pil in questi anni di crisi e poi di lentissima ripresa. Dall'inizio del 2015 - secondo gli ultimi dati dell'Istat riferiti a novembre - l'export ha fatto registrare un incremento di quasi il 4% in valore e del 2% in volumi. A novembre l'attivo commerciale ha raggiunto 39,2 miliardi. "Le buone performance delle esportazioni - sostiene Riccardo Maria Monti, presidente dell'Ice (l'agenzia per la promozione all'estero delle imprese italiane) - vanno lette lungo due assi: uno settoriale, l'altro geografico. A guidare l'export sono state soprattutto le aziende high-tech, quella della farmaceutica, delle biotecnologie, dell'aerospazio ma anche dell'agroalimentare. Poi è stata fondamentale la scelta strategica di orientare le esportazioni verso il mercato degli Stati Uniti (+20%) che ha consentito all'Italia di risentire meno della frenata delle cosiddette economie emergenti". I buoni risultati sui mercati internazionali, che hanno compensato nel 2015 l'andamento negativo della domanda interna, nascono dalla capacità delle imprese italiane esportatrici "di diversificare", come dice Monti. Muoversi cioè con velocità e flessibilità verso i mercati più stabili. Così la crisi della Russia ha inciso poco (3 miliardi sui 500 complessivi) sulla dinamica dell'export, e anche la frenata della Cina (dove esportiamo per 10 miliardi circa) la sentiremo poco, meno comunque della Germania che esporta per quasi 70 miliardi di euro. "Questo assetto conservativo dell'export - spiega Monti - può farci prevedere un 2016 positivo anche se non brillante".

 

Per tante imprese prestiti ancora negati. Il credit crunch (la stretta del credito) è finito da due anni: nel 2014 per le famiglie e nel 2015 per le imprese. Almeno è quanto racconta l'Abi, l'associazione delle banche italiane. "L'anno scorso sono stati erogati mutui per 360 miliardi contro i 357 del 2014, ma questo dato di stock è fuorviante perché tiene conto anche dei mutui vecchi", spiega il vicedirettore Gianfranco Torriero. "Il flusso, cioè le nuove erogazioni, segnalano invece una crescita: +97%, un raddoppio". Di cui però un terzo sono surroghe e dunque sostituzioni di vecchi contratti con nuovi più convenienti. E le imprese? "Anche qui il dato di stock colloca a 793 miliardi i prestiti nel 2015, rispetto agli 808 del 2014. Ma quello di flusso registra circa un +11,5%. Quindi anche il credito alle aziende è ripartito". Antonio Gennari, direttore generale Ance (costruttori) è però meno ottimista: "L'attenzione delle banche è cambiata, ma c'è ancora molta resistenza e selettività nei confronti delle imprese di costruzione. Non registriamo una inversione significativa, anzi siamo ancora sotto pressione. Le banche continuano a essere diffidenti verso un settore come il nostro che ha perso il 35% di investimenti in otto anni di crisi. Eppure per il 2016 ci aspettiamo un +1%, primo segno più dal 2008".

 

Eterno declino del sud: spese ferme, nascite in calo. C'è un dato non strettamente economico che spiega meglio di altri la profondità della crisi del Mezzogiorno: il tracollo del tasso di fecondità. Nelle regioni meridionali non nascono più bambini. Nel 2014 ne sono stati registrati 174 mila, il valore più basso dall'Unità d'Italia. Il tasso di fecondità al Sud - spiega la Svimez (l'Associazione per lo sviluppo dell'industria nel Mezzogiorno) nel suo ultimo rapporto - è sceso a 1,31 figli per donna, ben distanti dai 2,1 necessari per garantire la stabilità demografica. "La nuova questione meridionale è la desertificazione demografica", dice Emanuele Felice, professore di Storia economica all'Università autonoma di Barcellona e autore di Perché il Sud è rimasto indietro. "Così - aggiunge Felice - al Mezzogiorno mancano le energie per fare la crescita. È una situazione molto critica". E proprio la permanenza in recessione dell'economia meridionale costituisce uno dei freni alla dinamica del resto del Paese. Il divario del Pil pro capite del Sud rispetto al Centro-Nord è tornato ai livelli di quindici anni fa. Negli anni della crisi (2008-2014) i consumi delle famiglie meridionali sono crollati di quasi il 13% e gli investimenti nell'industria addirittura del 59%. Il 62% dei meridionali guadagna meno di 12 mila euro annui contro il 28,5% del Centro-Nord. "Servono investimenti in infrastrutture e in istruzione - aggiunge Felice - ma servirebbe anche un'altra classe dirigente meridionale il cui bilancio è l'inconcludenza. Vale per la destra come per la sinistra, con le dovute eccezioni".

 

(La Repubblica)