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Cassazione: si può mandare a quel paese il capo. Ma solo una volta!

 

Un “vaffa” rivolto al capufficio non basta per giustificare il licenziamento. Parola di Cassazione. Secondo gli ermellini, infatti, se l’offesa al superiore resta circoscritta nell’ambito di un solo episodio, non va a compromettere il rapporto fiduciario con l’azienda. Per questo, la suprema Corte (sentenza 10426/2012) ha respinto il ricorso di un’azienda che si era opposta alla reintegra di un dipendente che aveva mandato a quel paese una superiore gerarchica. Il caso era finito nelle aule di giustizia principalmente per il fatto che l’offerta era stata rivolta ad un superiore donna.

Dopo il “vaffa” il lavoratore era stato licenziato ma il tribunale di Chieti aveva annullato il licenziamento facendo rilevare appunto che l’offesa era stata episodica.

La decisione veniva confermata anche dalla Corte d’Appello. Ricorrendo in Cassazione l’azienda aveva sostenuto la legittimità del licenziamento data la condotta del dipendente che doveva considerarsi “gravemente ingiuriosa e intimidatoria al superiore gerarchico donna deriso e apostrofato”.

Respingendo il ricorso la Suprema Corte ha confermato il doppio verdetto evidenziando che la motivazione dei giudici di merito “appare congrua e logicamente coerente e supportata da precisi ed univoci riferimenti alle risultanze processuali che hanno consentito di ridimensionare la gravita’ dei fatti e di circoscrivere l’episodio che, sia pure censurabile, non dimostra la volonta’” del dipendente “di sottrarsi alla disciplina aziendale e di insubordinarsi, essendo rimasto nei limiti di una intemperanza verbale”. Insomma un comportamento che va si censurato, ma che non può essere sanzionato con un licenziamento.
(StudioCataldi - N.R.)

 

Cassazione: Equitalia risarcisca danni morali se pignoramento è illegittimo


Un avvertimento a Equitalia, arriva dalla terza sezione civile della Corte di Cassazione (sentenza n. 9445/2012). D’ora in avanti, la società di riscossione dovrà fare attenzione quando esegue pignoramenti ai danni dei contribuenti perché se si dovesse accertare che il credito per il quale si è agito non è dovuto, Equitalia dovrà risarcire il contribuente anche del danno morale subito. Il caso preso in esame dei giudici di piazza Cavour riguarda l’esecuzione di un pignoramento mobiliare eseguito presso lo studio di un avvocato.

Equitalia, prima del pignoramento, aveva ricevuto una comunicazione da parte del contribuente con la quale veniva avvertita che il debito era stato annullato da una sentenza del Tribunale di Roma. La società avrebbe quindi dovuto sospendere il pignoramento e, non avendolo fatto, il suo perseverare nell’azione esecutiva ha integrato la fattispecie del reato di omissione di atti di ufficio. Di qui il diritto del contribuente ad ottenere anche il risarcimento del danno morale. Inizialmente la domanda di risarcimento del danno morale avanzata dal contribuente veniva respinta sia dal Tribunale sia dalla Corte d’Appello. I giudici di merito avevano ritenuto infatti che nell’accaduto non vi fossero gli estremi di un illecito penale e non vi sarebbe stato alcun pregiudizio per chi ha subito il pignoramento. Ribaltando il verdetto la Corte di Cassazione ha fatto notare invece che il giudice di merito, sia pure in sede civile, avrebbe dovuto accertare la configurabilità in astratto di un’ipotesi di reato (nella fattispecie appunto l’omissione di atti d’ufficio di cui all’art. 328 secondo comma del codice penale) e condannare conseguentemente Equitalia al risarcimento dei danni.
(StudioCataldi - N.R.)
 

“La piazza non è il salotto di casa”. La Cassazione mette al bando i gesti ‘cafonal’

 

(Adnkronos) - La Cassazione mette al bando l’atteggiarsi a volte un po’ ‘cafonal’ degli italiani, specie se i gesti “sboccati” si verificano in una piazza o in una via pubblica, provocando un danno, non voluto, a qualcuno. Gia’, perche’ “la pubblica via non e’ il salotto di casa”, annota la Suprema Corte, ricordando che “di essa ciascuno ha il diritto di godere ma anche il dovere di lasciare godere alla generalita’ dei cittadini e dunque di rapportare il proprio comportamento al rispetto dei diritti altrui”. Il richiamo al ‘bon ton’ in pubblico da parte della Cassazione e’ scaturito dalla denuncia fatta dalla signora Giovanna Q., ultraottantenne, ad un ventottenne di Ruvo di Puglia che l’ aveva colpita all’ occhio destro, del tutto inavvertitamente, mentre su un marciapiede della centralissima piazza stava parlando con tre amici gesticolando ampiamente a braccia aperte. Un atteggiamento “scomposto”, e un poco ‘cafonal’, che ha indotto l’anziana signora a denunciare Francesco T. per lesioni colpose consistenti in un edema palbebrale marcato (prognosi di otto giorni). La denuncia, pur non sortendo una condanna penale come avrebbe voluto Giovanna Q., otterra’ pero’ soddisfazione in sede civile con un risarcimento danni. A fare breccia tra gli ‘ermellini’, la tesi difensiva sostenuta dalla signora secondo la quale il giovane, proprio per il contesto in cui si trovava, vale a dire il marciapiedi della piazza, “avrebbe dovuto evitare gesti scomposti”. Se il Tribunale di Ruvo di Puglia - nel febbraio 2011 - aveva assolto Francesco T. “perche’ il fatto non costituisce reato” sulla base del fatto che i gesti un po’ scomposti mentre si chiacchiera sono “abitudine comune”, la Cassazione ha messo uno stop all’atteggiarsi ‘cafonal’, spiegando che “non e’ la generalizzata diffusione dei comportamenti a rendere lecita una condotta, essendo in ogni caso primario, nell’agire dell’uomo, il rispetto del ‘neminem laedere”. E poi, ha osservato la Quarta sezione penale con la sentenza 24993 - “la pubblica via non e’ il salotto di casa” per cui “l’abitudine di accompagnare con i gesti una conversazione, di per se’ certamente lecita, perde il carattere di liceita’ nel momento in cui essa, per le modalita’ che caratterizzano la gestualita’ e per il contesto in cui essa si manifesta, rappresenti una violazione delle ordinarie regole di prudenza e di diligenza che, comunque ed in ogni caso, devono accompagnare qualsiasi comportamento umano”. Percio’ se gli atteggiamenti sboccati in pubblico provocano un danno a qualcuno, e’ giusto risarcirli “a titolo di colpa”. La vicenda, nonostante il parere contrario della pubblica accusa della Cassazione che aveva suggerito di passare sopra alla cosa, tornera’ davanti al giudice civile di secondo grado che provvedera’ a quantifcare i danni per l’anziana ferita. Perche’ “la pubblica via non e’ il salotto di casa e di essa ciascuno ha il diritto di godere e di lasciarne godere alla generalita’ dei cittadini”.

 

Cassazione: avvocato ha diritto all’onorario per attività difensive in udienza anche se adotta la ‘strategia del silenzio’

 

Con sentenza 8167, depositata il 23 maggio 2012, la Corte di cassazione ha stabilito che, l’avvocato che adotta la strategia processuale del silenzio ha diritto al compenso previsto dalla tariffa penale per l’esercizio di attività difensive in udienza e non già a quello previsto per la mera partecipazione ad essa. In particolare, i giudici di legittimità hanno spiegato che in tema di esercizio del ministero di difensore della parte processuale nel procedimento penale deve ritenersi l’integrazione di cui al punto 6.2 della tabella C della tariffa sicuramente spettante al difensore che abbia assistito in udienza alle discussioni delle altre parti o che abbia partecipato, pur senza prendervi direttamente la parola, ad udienze istruttorie in cui siano state formulate richieste di prova o si sia proceduto ad esami, controesami e riesami, confronti, ricognizioni, esprimenti, perizie, contestazioni, acquisizioni o letture, atteso che la cura e la tutela degli interessi processuali dell’imputato al cui espletamento l’ordinamento riconnette il diritto all’onorario può manifestarsi anche mediante una partecipazione silente, pure essa essendo espressione di una strategia processuale nella quale si concreta la garanzia costituzionale del diritto di difesa e del diritto al contraddittorio nel processo penale.

Secondo la ricostruzione della vicenda, un avvocato, che aveva difeso nell’ambito di un procedimento penale un soggetto, beneficiario del patrocinio a spese dello Stato in quanto collaboratore di giustizia ammesso allo speciale programma di protezione, proponeva ricorso per cassazione avverso l’ordinanza con cui il Tribunale penale di Napoli accoglieva soltanto parzialmente l’opposizione, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 170, (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia), avverso il decreto di liquidazione del compenso professionale. Accogliendo l’opposizione del professionista, gli Ermellini, cassando l’ordinanza e rinviandola al Tribunale di Napoli, hanno quindi accolto i motivi di censura proposti dal professionista, precisando in conclusione che “il difensore di persona ammessa al patrocinio a spese dello Stato che, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, artt. 84 e 170, proponga opposizione avverso il decreto di pagamento dei compensi, contestando l’entità delle somme liquidate, agisce in forza di una propria autonoma legittimazione a tutela di un diritto soggettivo patrimoniale; ne consegue che il diritto alla liquidazione degli onorari del procedimento medesimo e l’eventuale obbligo del pagamento delle spese sono regolati dalle disposizioni del codice di procedura civile relative alla “responsabilità delle parti per le spese” (art. 91 c.p.c., e art. 92 c.p.c., commi 1 e 2) (Cass. pen., Sez. Un., 26 giugno 2008, n. 25931; Cass. civ., Sez. 6^ - 2, 12 agosto 2011, n. 17247)”
( StudioCataldi - Luisa Foti)

 

Cassazione: va sospeso il procedimento disciplinare a carico dell’avvocato se pende procedimento penale

 

Con sentenza n. 5991/2012, il massimo consesso di Piazza Cavour ha ricordato che deve essere sospeso il procedimento disciplinare a carico dell’avvocato, se pende per i medesimi fatti un procedimento penale. In particolare, gli Ermellini hanno sottolineato che in tema di procedimento disciplinare nei confronti di avvocati, per effetto della modifica dell’articolo 653 Cpp disposta dall’articolo 1 della legge 97/2001, qualora l’addebito abbia ad oggetto gli stessi fatti contestati in sede penale, s’impone la sospensione del giudizio disciplinare in pendenza dei procedimento penale ai sensi dell’articolo 295 Cpc: ne consegue che il Consiglio nazionale forense deve procedere a una delibazione in ordine all’effettiva identità esistente tra le condotte contestate all’incolpato in sede penale e quelle per le quali egli è stato sottoposto a procedimento disciplinare dal Consiglio dell’Ordine degli avvocati, onde verificare la sussistenza dei presupposti per la sospensione necessaria del secondo.

Secondo la ricostruzione della vicenda, il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Voghera notificava all’avvocato, un atto di citazione contenente l’indicazione di determinati addebiti contestati al professionista in relazione ad alcune dichiarazioni rilasciate ad un periodico con le quali imputava ad un altro Avvocato di aver chiesto in via monitoria nei confronti di un Comune un compenso della attività professionale svolta in favore della predetta Pubblica Amministrazione spropositato rispetto a quello asseverato dal COA di Voghera. L’avvocato, sottoposto a procedimento disciplinare, proponeva ricorso per cassazione, deducendo violazione dell’art. 653 c.p.p., e art. 295 c.p.c. in quanto, la decisione impugnata del CNF interveniva quando era già pendente presso il Tribunale di Bergamo un procedimento penale per i medesimi fatti, nel quale l’esponente era imputato e l’altro Avvocato rivestiva la qualità di parte offesa. Sosteneva dunque la necessità di sospendere il procedimento disciplinare. Ritenendo il motivo fondato, la Corte, ha quindi accolto il ricorso dell’avvocato imputato in un procedimento penale.
(StudioCataldi - Luisa Foti)

 

Cassazione: si alla sanzione amministrativa se il datore di lavoro reintegra “parzialmente” il lavoratore


La Corte di Cassazione, con sentenza n. 9965 del 18 giugno 2012, ha affermato che sussiste l’applicabilità della sanzione di cui all’ultimo comma dell’articolo 18 della legge 300/70 nel caso in cui il datore di lavoro - accertata l’illegittimità del licenziamento disposto nei confronti di due suoi dipendenti, nonché dirigenti sindacali aziendali e ordinata la loro reintegrazione nel posto di lavoro - corrisponde ai lavoratori reintegrati la retribuzione e ne consente l’ingresso in azienda per svolgere le funzioni di dirigenti sindacali, ma non consente loro di riprendere l’attività lavorativa.

Nella fattispecie l’INPS ha ritenuto che il comportamento della società non fosse conforme alla legge ed ha, di conseguenza, applicato la sanzione prevista dall’ultimo comma dell’art. 18, mediante l’emissione di cartelle esattoriali; il Tribunale prima e la Corte d’appello poi, hanno dato ragione all’INPS, affermando che il comportamento della società non con figura “un reale adempimento dell’ordine di reintegrazione” contenuto nella sentenza passata in giudicato perché l’adempimento del contratto di lavoro da parte del datore di lavoro, cui è strumentale l’obbligo di reintegrazione, implica che al lavoratore venga consentito di rendere la prestazione, che non è solo un obbligo ma anche un diritto. La Società datrice di lavoro propone ricorso in Cassazione sostenendo che l’ordine di reintegrazione non è coercibile e da tale affermazione desume che il rifiuto da parte del datore di lavoro di accettare la prestazione lavorativa è legittimo, traendone la conseguenza che non è applicabile il decimo comma dell’art. 18 secondo cui il datore di lavoro che non ottempera alla sentenza o all’ordinanza è tenuto anche, per ogni giorno di ritardo, al pagamento a favore del Fondo adeguamento pensioni di una somma pari all’importo della retribuzione dovuta al lavoratore. La Suprema Corte, rigettando il ricorso, precisa che l’ordine di reintegrazione del lavoratore illegittimamente licenziato non è suscettibile di esecuzione specifica, in quanto l’esecuzione in forma specifica è possibile per le obbligazioni di fare di natura fungibile “mentre la reintegrazione nel posto di lavoro comporta non soltanto la riammissione dei lavoratore nell’azienda (e cioè un comportamento riconducibile ad un semplice ‘pati’) ma anche un indispensabile ed insostituibile comportamento attivo del datore di lavoro di carattere organizzativo-funzionale, consistente, fra l’altro, nell’impartire al dipendente le opportune direttive, nell’ambito di una relazione di reciproca ed infungibile collaborazione. Se tale affermazione in ordine alla incoercibilità è fondata, non è invece condivisibile la conseguenza che la società ricorrente propone di trarne e cioè che l’incoercibilità comporti la non applicabilità della sanzione specifica prevista dal decimo comma dell’art. 18 poiché tale disposizione non è collegata alla coercibilità dell’ordine di reintegrazione, ma semplicemente alla ‘inottemperanza’ dell’ordine stesso.”. Si legge nella sentenza “’Reintegrare’ significa ‘restituire in integro’: cioè riportare nella condizione di pienezza del diritto leso, comprensiva di tutti i profili, tanto economici che non economici. Questa integralità della posizione da ripristinare insita nel concetto di reintegrazione è poi ulteriormente rafforzata dall’utilizzo della espressione ‘nel posto di lavoro’, che esclude ogni dubbio sul fatto che la ricostruzione debba riguardare l’integralità della posizione del lavoratore e non solo i profili retributivi ed eventualmente sindacali.”. Incoercibilità in forma specifica - affermano i giudici di legittimità - non significa che l’obbligo di reintegrazione possa considerarsi ottemperato con il mero pagamento della retribuzione né deve ritenersi che ineseguibilità in forma specifica significhi esenzione da qualsiasi sanzione anzi, è proprio questo il campo in cui vengono utilizzati strumenti di coercizione ‘indiretta’ per indurre all’adempimento l’obbligato, mediante il pagamento di una somma da versare qualora rifiuti di ottemperare all’ordine del giudice di eseguire la prestazione dovuta.
(StudioCataldi - L.S.)

 

Cassazione: ci si può fermare sulla corsia d’emergenza se sopraggiunge una forte stanchezza


Se mentre si è alla guida in autostrada sopraggiunge un momento di forte stanchezza, è lecito fermarsi sulla corsia d’emergenza. Lo ha chiarito la corte di cassazione (sentenza numero 19170/2012) Spiegando che quella condizione fisica che precede il cosiddetto “colpo di sonno” deve considerarsi come una condizione di malessere che giustifica la sosta sulla corsia di emergenza. La vicenda ha avuto inizio a seguito di un incidente verificatosi in autostrada. Un’autovettura, era finita contro una autoarticolato fermo sul margine destro nella corsia d’emergenza.

L’incidente aveva esiti mortali per uno degli occupanti l’autovettura e ne scaturiva pertanto un procedimento penale per omicidio colposo. Il conducente dell’autoarticolato si era difeso sostenendo di essersi fermato proprio perché molto stanco e di essersi svegliato poi a seguito dell’urto.

Il GUP presso il Tribunale di Roma dichiarava “non doversi procedere” perché il fatto non sussiste in ordine al reato di omicidio colposo.

Il caso finiva poi in Cassazione dove il Procuratore Generale e il difensore le parti civili sostenevano che il giudicante avrebbe commesso un errore assimilando al “malessere fisiologico” che giustifica la sosta sulla corsia d’emergenza, una semplice condizione di stanchezza, dato che nel secondo caso il conducente avrebbe potuto fermarsi in un luogo più idoneo.

La Cassazione ha respinto il ricorso spiegando che il GUP ha correttamente “inquadrato la stanchezza (riferibile nel caso di specie, all’evidenza, in quella situazione che precede il pericoloso c.d. “colpo di sonno”) nel concetto di “malessere” che giustifica la sosta sulla corsia di emergenza ai sensi dell’art. 157 C.d.S., comma 1, lett. d). Invero, il termine “malessere” non può esaurirsi nella nozione di infermità incidente sulla capacità intellettiva e volitiva del soggetto come prevista dall’art. 88 c.p. o nell’ipotesi di caso fortuito di cui all’art. 45 c.p., bensì nel lato concetto di disagio e finanche di incoercibile necessità fisica anche transitoria che non consente di proseguire la guida con il dovuto livello di attenzione, e quindi in esso deve necessariamente ricomprendersi la stanchezza ed il torpore che sono segni premonitori di un colpo di sonno ed impongono al soggetto, per concrete esigenze di tutela per sé e per gli atri utenti della strada, di interrompere la guida”.

E non basta il collegio ha fatto anche notare che nel caso di specie manca completamente la cosiddetta “concretizzazione del rischio” in relazione alle finalità specifiche della corsia d’emergenza dato che questa non ha funzione di garantire l’incolumità di quanti possono sbandare ed invaderla, ma solo di consentire l’accesso ai mezzi di polizia o di soccorso per raggiungere, senza intralci, i luoghi dove debbono recarsi qualora vi sia un’emergenza.
(StudioCataldi - N.R.)

 

Cassazione: non è reato acquistare un prodotto con marchio contraffatto


L’acquirente finale di un prodotto con marchio contraffatto, non commette illecito penale. Lo hanno stabilito le Sezioni Unite della Corte di Cassazione (sentenza n.22225/2012) spiegando che non si può configurare una responsabilità a titolo di ricettazione (di cui all’art. 648 del codice penale) e neppure una responsabilità per acquisto di cose di sospetta provenienza (fattispecie disciplinata dall’articolo 712 del codice penale). Insomma chi compra il prodotto con marchio contraffatto potrebbe solo incorrere in un illecito amministrativo (quello previsto dal d.l

l. 14 marzo 2005, n. 35, conv. in l. 14 maggio 2005, n. 35, nella versione modificata dalla legge 23 luglio 2009, n. 99). Questa norma, spiega la Corte, va considerata prevalente (per la sua “specialità”) sia rispetto al delitto sia rispetto alla alla contravvenzione previsti dal codice penale.

Questa prevalenza si fonda sulle seguenti ragioni:

La prima è quella riferita al soggetto agente. Come fa notare la Corte, infatti, per i reati previsti dal codice penale il soggetto agente può essere chiunque mentre l’illecito amministrativo è riferibile solo all’acquirente finale.

La seconda ragione è da ricercarsi nella natura dell’oggetto stante la maggiore specificità delle “cose che, per la loro qualità o per la condizione di chi le offre o per l’entità del prezzo, inducano a ritenere che siano state violate le norme in materia di origine e provenienza dei prodotti ed in materia di proprietà industriale”. Le norme del codice si riferiscono invece a cose “provenienti da delitto”.

La terza ragione è data dal rilievo che nella norma manca l’inciso “senza averne accertata la legittima provenienza”, e ciò consente di allargare l’ambito di applicazione dell’elemento psicologico dell’agente.
(StudioCataldi - N.R.)
 

 

Cassazione: il committente che omette di nominare il coordinatore della progettazione è responsabile dell’infortunio all’operaio dell’appaltatore


In materia di sicurezza sul lavoro, qualora manchi la nomina del coordinatore della progettazione da parte del committente, sussiste la responsabilità di quest’ultimo per l’infortunio all’operaio dell’appaltatore. E’ quanto affermato dalla Corte di Cassazione che, con sentenza n. 24082/2012, ha rigettato il ricorso del legale rappresentante di una società ritenuto responsabile della morte di un dipendente della società cui era stato subappaltato parte del lavoro, per colpa generica e specifica, quest’ultima consistita nella violazione dell’art.

3 co. 3 lett. b. del D.lgs n. 494/96 (NDR: attualmente il Dlgs 494/1996 è stato sostituito dal “Testo unico sulla salute e sicurezza sui luoghi lavoro” D.lgs 81/2008) in relazione alla mancata nomina di un coordinatore per la progettazione. La Suprema Corte ha precisato che la Corte territoriale ha attentamente esaminato ogni questione sottoposta al suo giudizio e, dopo aver ricostruito i fatti, ha adeguatamente motivato le ragioni del proprio dissenso rispetto alle argomentazioni ed osservazioni difensive, in particolare affermando che l’omessa e doverosa nomina, da parte del committente, del coordinatore per la progettazione ha avuto un preciso ruolo causale nella determinazione del mortale infortunio e che del tutto presuntuose erano le protese d’innocenza dell’imputato, fondate su una presunta ignoranza della presenza in cantiere di una pluralità di imprese. Il giudice del gravame - affermano i giudici di legittimità - ha osservato, argomentando in termini del tutto coerenti sotto il profilo logico, che la prolungata e quotidiana presenza in cantiere dell’imputato ed i continui contatti dello stesso con le maestranze impegnate nei lavori non lasciavano dubbi in ordine alla consapevolezza dello stesso della presenza di una pluralità di imprese e “ha altresì, condivisibilmente sostenuto che, ove anche tale consapevolezza egli non avesse avuto, si sarebbe trattato di ignoranza inescusabile, perché frutto di un’omissione colposa, in vista della posizione di garanzia che comunque assume il committente che, ove anche non si ingerisca nell’esecuzione dei lavori, assume su di sé la responsabilità (condivisa con l’appaltatore) per la violazione degli obblighi imposti dalla legge in materia di sicurezza.” Nel caso di specie, aggiunge la Suprema Corte, non può negarsi “la palese e grave violazione delle norme prevenzionali, ove si consideri che i lavori si svolgevano a notevole altezza dal suolo senza alcuna copertura del prevedibile rischio di caduta dall’alto e che la totale assenza delle doverose misure di sicurezza era evidente e palesemente percepibile da chiunque. Circostanza, quest’ultima, che, a prescindere dall’individuazione della ditta che concretamente era impegnata nei lavori ancor più evidenzia la condotta colpevolmente omissiva dell’imputato, che ha consentito l’inizio e la prosecuzione dei lavori malgrado l’evidente condizione di grave rischio in cui operavano le maestranze.”.
(StudioCataldi - L.S.) 

 

Cassazione: vicino molesto non può essere condannato se rumori restano tra le mura del condominio


E’ sempre più difficile ottenere tutela contro il disturbo arrecato da vicini rumorosi. Secondo la cassazione, infatti, se il nostro dirimpettaio è particolarmente rumoroso, non sarà passibile di condanna penale ai sensi dell’art. 659 del codice penale (Disturbo delle occupazioni o del riposo delle persone) se rumori non si propagano anche fuori dallo stabile. La norma, prevede che “Chiunque, mediante schiamazzi o rumori, ovvero abusando di strumenti sonori o di segnalazioni acustiche, ovvero suscitando o non impedendo strepiti di animali, disturba le occupazioni o il riposo delle persone [....] è punito con l’arresto fino a tre mesi o con l’ammenda fino a euro 309. Per la suprema Corte però, finché i rumori restano all’interno delle mura condominiali, non si concretizza la fattispecie prevista da tale norma. La decisione è della prima sezione penale della corte (sentenza n. 25225/2012) e riguarda il caso di tre condomini che in primo grado erano stati condannati per la loro cattiva abitudine di urlare per le scale, sbattere con violenza le porte, e fare rumore sbattendo tavoli e sedie sul pavimento. I condomini rumorosi hanno impugnato la condanna e, diinanzi alla suprema Corte, hanno obiettato che i rumori, essendo rimasti all’interno delle mura condominiali, non avevano turbato la quiete pubblica intesa come collettività indistinta. Una tesi che ha fatto breccia nei giudici della Corte che hanno così annullato la sentenza evidenziando che gli unici danneggiati dai rumori molesti sono stati cinque condomini che occupavano la palazzina e che tali rumori non si sono propagati all’esterno. A questo punto ai condomini non resta altra strada che procedere in sede civile considerato che, vale la pena ricordarlo, l’art. 844 del codice civile, offre una tutela più incisiva dato che è possibile impedire i rumori che superano la soglia della cosiddetta “normale tollerabilità” a prescindere dal fatto che essi si propaghino o no anche all’esterno . In sede penale, invece, la violazione dell’art. 659 c.p. si configura solo se il disturbo riguarda un numero indeterminato di persone. Secondo la Corte, infatti, tale norma ha la finalità “di preservare la quiete e la tranquillità pubblica ed i correlati diritti alle persone all’occupazione ed al riposo; e la giurisprudenza di legittimità è orientata nel senso di ritenere che elemento essenziale di detta contravvenzione sia l’idoneità del fatto ad arrecare disturbo ad un numero indeterminato di persone”.
(StudioCataldi - N.R.)

 

Cassazione: prolungamento forzato del viaggio di nozze? Va risarcito il danno da vacanza rovinata

Ancora una volta la Corte di Cassazione torna pronunciarsi in materia di danno da vacanza rovinata. Cosa curiosa è che questa volta vi è stato anche il problema del prolungamento forzato del viaggio di nozze dovuto al fatto che non era stata indicata con esattezza la data del rientro. La decisione è della terza sezione civile della Corte (Sentenza n. 7256/2012) che, pur avendo dichiarato inammissibili molti dei motivi di ricorso per “difetto di autosufficienza” non essendo stati riprodotti nel ricorso i contenuti documenti richiamati, si è soffermata ad affrontare le questioni relative al danno non patrimoniale.

La questione centrale sottoposta all’attenzione della Corte è se, “nell’ipotesi di inadempimento o inesatta esecuzione del contratto rientrante nella disciplina che regola, in adempimento della direttiva n. 90/314/CEE, i “pacchetti turistici” (contenuta nel d.lgs. n. 111 del 1995, rilevante ratione temporis, poi riprodotta, senza modificazioni, per la parte di interesse, nel d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206, “Codice di consumo”), il danno non patrimoniale da vacanza rovinata, in senso stretto, quale pregiudizio conseguente alla lesione dell’interesse del turista di godere pienamente del viaggio organizzato come occasione di piacere e di riposo, e quindi, quando non vengano in rilievo lesioni all’integrità psicofisica tutelate dall’art. 32 Cost., sia risarcibile, ex art. 2059 cod. civ., che, secondo l’interpretazione della giurisprudenza di legittimità, stante il carattere tipico della tutela di interessi non connotati da rilevanza economica, necessita di una fonte normativa ordinaria espressa, o del fondamento costituzionale, in riferimento ai diritti inviolabili della persona (art. 2 Cost., 4, 13, 29, 30), e al diritto alla salute (art. 32 Cost.), o di una fonte comunitaria, in ragione della prevalenza del diritto comunitario su quello interno (Sez. Un. 11 novembre 2008, n. 26972)”. Una domanda cui la Corte dà una risposta positiva.
La Corte ha ricordato alcune precedenti decisioni in cui aveva divenuto la legittimità di tale danno non patrimoniale. “Nel rigettare il ricorso avverso sentenza che l’aveva riconosciuto, ne ha individuato il fondamento, “non nella generale previsione dell’art. 2 Cost., ma proprio nella cosiddetta vacanza rovinata (come legislativamente disciplinata)” (Cass. 4 marzo 2010, n. 5189). Da ultimo (Cass. 20 marzo 2012, n. 4372) ha cassato una decisione che lo aveva negato, affermando che la risarcibilità di tale danno “è prevista dalla legge, oltre che costantemente predicata dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia Europea”. In effetti, la legislazione di settore concernente i “pacchetti turistici”, emanata in attuazione della normativa comunitaria di tutela del consumatore, nell’ambito dell’obiettivo dell’avvicinamento delle legislazioni degli Stati membri della Comunità Europea, come interpretata dalla Corte di Giustizia CE, ha reso rilevante l’interesse del turista al pieno godimento del viaggio organizzato, come occasione di piacere o riposo, prevedendo il risarcimento dei pregiudizi non patrimoniali (disagio psicofisico che si accompagna alla mancata realizzazione in tutto o in parte della vacanza programmata) subiti per effetto dell’inadempimento contrattuale. La Corte di Giustizia, già nel 2002 (sentenza 12 marzo 2002, n. 168), pronunciandosi in via pregiudiziale sull’interpretazione dell’art. 5 della direttiva n. 90/314/CEE, ha affermato che il suddetto articolo “deve essere interpretato nel senso che in linea di principio il consumatore ha diritto al risarcimento del danno morale derivante dall’inadempimento o dalla cattiva esecuzione delle prestazioni fornite in occasione di un viaggio tutto compreso”, mettendo in evidenza che nel settore dei viaggi turistici si segnalano spesso “danni diversi da quelli corporali”, “al di là dell’indennizzo delle sofferenze fisiche” e che “tutti gli ordinamenti giuridici moderni [riconoscono]... un’importanza sempre maggiore alle vacanze”.
La Corte fa anche notare che qualora si discuta di danni non patrimoniali per disagi e fastidi minimi, spetta al giudice di merito individuare il superamento o meno di tale soglia minima dato che mancano delle delimitazioni normative. Una volta provato l’inadempimento del contratto relativo al pacchetto turistico e allegato di aver subito un danno non patrimoniale da vacanza rovinata non è necessario fornire prove ulteriori per ottenere il risarcimento giacché, spiega la Corte, una volta raggiunta la prova dell’inadempimento deve darsi per provato anche il verificarsi del danno anche perché gli stati psichici interiori della parte non possono essere oggetto di una prova diretta e vanno quindi desunti dalla mancata realizzazione della “finalità turistica”.
(StudioCataldi - N.R.)

 

Responsabilità professionale: Cassazione, se nuovo avvocato non ripropone l’azione la negligenza del collega non da luogo a risarcimento


In tema di responsabilità civile e in particolare di colpa professionale, con sentenza n. 6277/2012, la Corte ha sancito che se il secondo avvocato incaricato dalla parte non ripropone l’azione risarcitoria, la negligenza del primo avvocato è priva di efficacia causale nella produzione del danno. Il chiarimento arriva dalla terza sezione civile della Corte di Cassazione secondo cui viene meno il nesso di causalità tra la negligenza del primo difensore (che non ha messo in mora ex articolo 22 della legge 990/69 i responsabili del sinistro stradale) e il danno, laddove il secondo, trovandosi di fronte all’alternativa di interporre appello avverso la sentenza che dichiarava improponibile la domanda proposta dagli eredi del de cuius e riproporre l’azione risarcitoria, ancora possibile perché non prescritta, omette quest’ultima scelta, l’unica adeguata e professionalmente dovuta per ottenere la condanna di un secondo soggetto responsabile, il proprietario del mezzo, dopo l’insolvenza del conducente che si è reso irreperibile e il fallimento della compagnia assicurativa, dovendosi ritenere tale condotta in grado di interrompere, ai fini della responsabilità professionale del primo difensore, il nesso causale con la negligenza che pure egli ha dimostrato.

(StudioCataldi - Luisa Foti)

 

Cassazione: nozze annullabili anche se vi è stata convivenza di trent’anni


In materia di famiglia, con sentenza n. 8926 depositata il 4 giugno 2012, la Corte di Cassazione ha precisato che la domanda di delibazione dell’annullamento canonico del matrimonio non può essere rigettata sul mero rilievo che fra gli sposi protagonisti del matrimonio annullato per vizio del consenso dalle autorità ecclesiastiche vi stata, dopo le nozze, una convivenza trentennale che ha portato, fra l’altro, alla nascita di tre figli. È questo il contenuto della sentenza degli Ermellini che hanno accolto il ricorso di un uomo avverso la sentenza con cui i giudici d’appello avevano negato la delibazione della sentenza di annullamento del matrimonio canonico.

La Corte di Appello spiegava che la circostanza che dalla celebrazione del matrimonio alla sentenza di nullità fossero decorsi ben trent’anni, nel corso dei quali la coppia aveva vissuto “pubblicamente come tale”, procreando tre figli, determinasse una volontà di accettazione del rapporto incompatibile con il successivo esercizio della facoltà di rimetterlo in discussione. La coppia proponeva così ricorso per cassazione e gli Ermellini, accoglievano le eccezioni sollevate dalla coppia, cambiando orientamento in materia. La convivenza fra i coniugi successiva alla celebrazione del matrimonio - hanno precisato i giudici di legittimità nella parte motiva della sentenza - non è espressiva delle norme fondamentali che disciplinano l’istituto e, pertanto, non è ostativa, sotto il profilo dell’ordine pubblico interno, alla delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio canonico.

(StudioCataldi - Luisa Foti)

 

Cassazione: anche se l’atto impositivo del fisco è illegittimo, il risarcimento non è automatico

 

Il fisco deve annullare prontamente in autotutela un accertamento e in generale un atto impositivo illegittimo ma risarcisce il contribuente solo quando questo dimostra l’effettivo pregiudizio subito dal ritardo dell’ufficio. È questo il contenuto della sentenza n. 6283/2012 con cui la terza sezione civile della Corte di Cassazione ha rigettato la richiesta di risarcimento del danno richiesta dal contribuente in riferimento all’emissione da parte dell’amministrazione finanziaria di una cartella esattoriale illegittima. Secondo il contribuente, l’amministrazione aveva richiesto il tributo illegittimo ma aveva provveduto allo sgravio in ritardo.

La Corte, confermando il suo orientamento in materia, (Cass. Civ. n. 698 del 19.01.2010, n. 5120 del 3.03.2011 e n. 21963 del 24.10.2011), ha infatti precisato che l’amministrazione finanziaria è tenuta al risarcimento del danno solo nel caso in cui sia provato che la stessa abbia agito violando i principi che limitano la sua azione verso l’esterno, imparzialità, correttezza e buona amministrazione. Il dato oggettivo dalla sola illegittimità dell’atto impositivo, ha precisato la Corte, non è da solo idoneo a determinare il risarcimento del danno: occorre che questa illegittimità sia accompagnata da “qualcos’altro” e cioè che la P.A. nel porre in essere l’atto illegittimo abbia agito violando le regole di imparzialità, correttezza e buona amministrazione. La Cassazione ha chiarito che il giudice deve accertare che in seguito all’atto illegittimo ci sia stato un danno, che questo danno sia “ingiusto” in relazione ad un interesse giuridico protetto dall’ordinamento che sia di interesse legittimo e/o di diritto soggettivo, la condotta causale della P.A. e che, a livello soggettivo, questa condotta causale possa essere addebitata alla P.A. sotto il profilo del dolo o, al limite, della colpa. Infine, per quanto riguarda l’onere probatorio, se il contribuente invoca l’art. 2043 c.c. come base per il risarcimento del danno per il ritardo della P.A. nell’emissione del provvedimento di autotutela, se il giudice nega il danno derivante dall’ingiustizia del provvedimento illegittimo, questo deve dimostrare che il danno ulteriore non si sarebbe verificato ove il provvedimento di autotutela fosse stato emesso in tempo.
(StudioCataldi - Luisa Foti)

 

Cassazione: licenziamento disciplinare sproporzionato al danno

 

Con la sentenza 21 giugno 2012, n. 10327, la Cassazione si pronuncia sul licenziamento del lavoratore in seguito a sanzione disciplinare. La Cassazione ritiene che il danno provocato dal lavoratore ad un mezzo di proprietà dell’azienda è inidoneo a giustificare una sanzione di tipo espulsivo, quando lo stesso risulti di entità minore a quella contestata e comunque non ricollegabile interamente all’incidente in esame. Il contratto collettivo, infatti, prevede solo la multa o la sospensione per gravi guasti provocati per negligenza al materiale dell’azienda e pertanto la condotta del ricorrente in primo grado non poteva essere sanzionata con misure espulsive del resto obiettivamente sproporzionate rispetto al fatto contestato.

Per questi motivi la chiesta conversione in licenziamento per giustificato motivo soggettivo, non emergendo un notevole inadempimento da parte del lavoratore, non poteva essere accolta. Nel caso di specie, il lavoratore ha omesso di informare la direzione dell’accaduto, in quanto il titolare non era presente in azienda ma si è comunque adoperato a riferire per iscritto dell’accaduto. La sanzione del licenziamento disciplinare risulta pertanto sproporzionata in quanto il danno è di modesta entità e il lavoratore ha riferito tempestivamente.
(StudioCataldi - L.S.) 

 

Cassazione: Equitalia deve pagare spese di giudizio per ritardo della notifica di una cartella di pagamento. Anche se non c’è colpa


Equitalia paga le spese di giudizio anche quando la cartella di pagamento è stata notificata in ritardo per responsabilità dell’Agenzia delle Entrate, inutile dunque per il concessionario della riscossione eccepire di fronte alla Suprema corte la mancanza di responsabilità per il ritardo verso il contribuente. Questo il contenuto della sentenza n. 8402/2012 con cui la Corte di Cassazione ha condannato Equitalia a pagare le spese di giudizio anche se non era ad essa addebitabile il ritardo nella notifica della cartella di pagamento, annullata in quanto notificata oltre il termine previsto dalla legge.

Secondo i giudici di legittimità, la decisione si fonda sul principio della soccombenza contenuto nell’art. 91 c.p.c. “La parte ricorrente (Equitalia), - hanno precisato i giudici della sesta sezione civile nella parte motiva della sentenza - fondando le proprie argomentazioni sull’asserita assenza di responsabilità del concessionario in ordine alla tardiva notifica della cartella, intenderebbe inammissibilmente sostituire al criterio legale della soccombenza ex 91 c.p.c. (fondato sulla obiettiva situazione processuale delle parti determinata all’ esito del giudizio in relazione alla affermazione/negazione della pretesa oggetto della controversia) un differente criterio fondato sull’ accertamento della colpa nella causazione dell’evento (decorso del termine di decadenza) che avrebbe dato luogo alla pronuncia di accertamento della infondatezza della pretesa tributaria”. Inutile il ricorso per cassazione di equitalia avverso la sentenza con cui veniva annullata una cartella di pagamento in quanto notificata entro il termine perentorio previsto dalla legge (art. 25 D.P.R. 603/1975 e art. 1, co. 5 ter, D.L. n. 106/2005 conv. in legge n. 156/2005). La Corte ha infine precisato che “il motivo si palesa infondato anche in considerazione della natura eminentemente discrezionale del potere di compensazione delle spese di lite riservato al giudice dall’art. 92, co.2, c.p.c.”.  
(StudioCataldi - Luisa Foti)

 

Cassazione: concesso ‘insultare’ un collega per difendere le proprie convinzioni professionali


Avete insultato un collega e lanciatogli addosso un faldone da cento chili di documenti? Non preoccupatevi (a meno che il vostro collega non abbia reagito mandandovi dritto in ospedale!), perché non necessariamente sarete perseguibili penalmente e costretti a pagare eventuali risarcimenti per il danno e l’offesa arrecati. La Cassazione ha infatti recentemente annullato il provvedimento preso lo scorso anno nei confronti di un medico, la Dott.ssa Rita G., dell’ospedale universitario Meyer di Firenze che le imponeva di risarcire una collega, la Dott.ssa Maria Luisa G., di 500 euro.

Secondo la sentenza 19577/2012 della Quinta sezione penale la Dott.ssa Rita G. non avrebbe accettato un parere discordante su una paziente e per tutta risposta avrebbe lanciato le richieste di esami fatte dalla collega più anziana in un cestino, senza farsi mancare di insultarla con parole del tipo: “lei ha l’abitudine di non rispettare i colleghi... se ne deve andare, e’ una vergogna, si permette di andare contro il mio parere...”. La Dott.ssa Maria Luisa G. era stata chiamata in causa, dalla dirigenza ospedaliera, per una consulenza di tipo genetico su una bimba affetta da malformazioni. Il medico avrebbe invece formulato una diagnosi totalmente discordante con quella originaria, mettendo in cattiva luce la collega più giovane. Che però non ha aspettato l’intervento dei superiori e si è fatta giustizia da sola.

Il comportamento però non è stato gradito dalla collega anziana, che ha trascinato Rita G. in un’aula di giustizia e si è vista dare ragione dalla Corte d’appello di Firenze, che nel luglio 2010 aveva condannato Rita G. a risarcire Maria Luisa U. con 500 euro. La Cassazione ha ora annullato, senza rinvio, la sentenza “perché’ il fatto non costituisce reato”. Spiega la Cassazione che, al di la’ della “pacifica oggettività offensiva delle espressioni usate”, l’episodio rientra nel “legittimo esercizio del diritto di critica”, in quanto “il fatto si poneva come chiara manifestazione di dissenso per il diverso parere espresso dalla collega più anziana, peraltro in un contesto tale da fare ragionevolmente ritenere che fosse stato reso con travalicamento dei compiti istituzionali da parte della stessa persona offesa ed indebita ingerenza nel proprio ambito  lavorativo”.

Nessun problema e ripensamenti la prossima volta che darete dell’incapace ad un vostro collega, fermo restando che siate assolutamente certi ci sia un’oggettiva prevaricazione in corso!
(StudioCataldi - Barbara LG Sordi)

 

Cassazione: il lavoratore ha diritto al pagamento dell’indennità sostitutiva per le ferie non godute a causa di malattia


La Corte di Cassazione, con sentenza n. 11462 del 9 luglio 2012, accogliendo il ricorso del direttore dei servizi amministrativi di un istituto tecnico commerciale, ha affermato il diritto del lavoratore a percepire l’indennità sostitutiva per le ferie non fruite a causa di malattia. Nella fattispecie la Corte d’Appello aveva rigettato la domanda proposta dal lavoratore, diretta al riconoscimento della sua indennità sostitutiva delle ferie maturate e non godute, al momento del suo collocamento al riposo, a cause di lunghe assenze per malattia, sulla base del fatto che il contratto collettivo di appartenenza prevedeva come unica ipotesi di pagamento dell’indennità il fatto che il mancato godimento delle ferie fosse motivato da “esigenze di servizio”, ciò che nel caso concreto non era avvenuto.

La Suprema Corte, ricordando che il diritto alle ferie gode di una tutela rigorosa, di rilievo costituzionale, visto che l’art. 36, terzo comma, Cost. prevede testualmente che “il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite, e non può rinunziarvi”, ha precisato che “l’indennità sostitutiva, oltre a poter avere carattere risarcitorio, in quanto idonea a compensare il danno costituito dalla perdita del bene (il riposo con recupero delle energie psicofisiche, la possibilità di meglio dedicarsi a relazioni familiari e sociali, l’opportunità di svolgere attività ricreative e simili) al cui soddisfacimento l’istituto delle ferie è destinato, per un altro verso costituisce un’erogazione di natura retributiva, perché non solo è connessa al sinallagma caratterizzante il rapporto di lavoro, quale rapporto a prestazioni corrispettive, ma più specificamente rappresenta il corrispettivo dell’attività lavorativa resa in un periodo che, pur essendo di per sé retribuito, avrebbe invece dovuto essere non lavorato perché destinato al godimento delle ferie annuali, restando indifferente l’eventuale responsabilità del datore di lavoro per il mancato godimento delle stesse.”. Sulla base di tali principi - sottolineano i giudici di legittimità - va affermata “l’illegittimità, per il loro contrasto con norme imperative, delle disposizioni di contratti collettivi che escludano il diritto del lavoratore all’equivalente economico di periodi di ferie non goduti al momento della risoluzione del rapporto, salva l’ipotesi del lavoratore che abbia disattesa la specifica offerta della fruizione del periodo di ferie da parte del datore di lavoro.”. Inoltre, nel caso in esame, poiché il lavoratore non ha potuto fruire delle ferie a causa di malattia, la sentenza del giudice d’Appello è in contrasto anche con la giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’UE che, con sentenze C-350/06 e C-520/06, ha chiarito che “l’articolo 7 della direttiva 2003/88 deve essere interpretato nel senso che sebbene la norma nazionale possa stabilire dei limiti temporali per il godimento delle ferie dalla loro maturazione, non è ammissibile escludere il diritto all’indennità finanziaria sostituiva quando i dipendenti siano in congedo per malattia”.
(StudioCataldi - L.S.)

 

Cassazione: risarcibile chi acquista un immobile con uso diverso da quello previsto


Leggendo questa sentenza (beh, forse non proprio tutta, lo ammetto!) mi sono rammentata di quando, qualche anno fa, in cerca di un appartamento in quel della città metropolitana (rassegnatevi, il neologismo cacofonico inizia a non dispiacermi) di Milano mi innamorai di un recupero di sottotetto. Riportata immediatamente coi piedi per terra, sia da un prezzo richiesto un po’ sopra il budget (maniera carina per non dire esorbitante) sia per mancanza di ascensore al piano (beh, a certe comodità non si può mica rinunciare).

A Roma, nel 1996, il signor R.B

B. aveva acquistato da una società, tramite una immobiliare, un appartamento ricavato da un sottotetto appunto; l’atto di vendita era stato “benedetto” da un notaio, ovviamente. Ebbene il poveretto, dopo averlo ristrutturato nel 2003 si era visto negare l’abitabilità dell’immobile, essendo ancora accatastato come lavatoio e per condonarlo aveva dovuto sborsare più di 10.000 euro. Naturalmente aveva citato in giudizio le tre parti, chiedendo un risarcimento dei danni subiti, tradotto in soldoni pari a circa 36 mila euro. Durante il giudizio i difensori del notaio si erano appellati al fatto che la deduzione di abitabilità o meno di un immobile poteva essere fatta solo se in possesso di adeguata preparazione tecnica, non dunque da un povero notaio, ma più che altro da un ingegnere o un architetto; o perché no, dall’aspirante acquirente stesso. Mi sfugge il fatto di come, durante la ricerca di una casa, ci si possa guadagnare una laurea “honoris causa” in architettura o ingegneria. Non male però.

Grazie al ricorso in Cassazione, con sentenza 10296/ 2012, all’inquilino è stato riconosciuto il diritto al risarcimento, proprio per mancanza di adeguate informazioni che il notaio avrebbe dovuto desumere semplicemente da documenti esistenti. Non c’era necessità alcuna di far rilevamenti o verifiche, improvvisandosi tecnici; ma semplicemente spulciare qualche scartoffia, nulla di nuovo per un notaio.
(StudioCataldi - Barbara LG Sordi)

 

Cassazione: illegittimo il licenziamento del lavoratore depresso che omette di comunicare la prosecuzione della malattia


La Corte di Cassazione, con sentenza n. 11798 del 12 luglio 2012, ha affermato l’illegittimità del licenziamento intimato ad una lavoratrice per l’omessa tempestiva comunicazione della prosecuzione della malattia, dovendosi ritenere giustificata - come precisato dalla Corte d’Appello - in considerazione del compromesso equilibrio psicologico della dipendente, integrando tale situazione un comprovato e giustificato impedimento, idoneo, in base alla disciplina collettiva applicabile, a escludere la sanzionabilità disciplinare dei comportamenti addebitati.

La società datrice di lavoro sosteneva che la Corte territoriale aveva affermato che la lavoratrice versava in una situazione di squilibrio psicologico, senza che tale valutazione trovasse riscontro nella documentazione medica acquisita agli atti, la quale, in realtà, non faceva menzione della compromissione delle facoltà intellettive e volitive della stessa e che i giudici di appello avevano ritenuto quale causa di oggettiva attenuazione della gravità della mancanza addebitata, il fatto che il datore di lavoro ben poteva prevedere che la malattia sarebbe proseguita e che lo stesso non avesse sollecitato la visita fiscale, con conseguente illegittima inversione dell’onere probatorio previsto dalla legge e dalla contrattazione collettiva in caso di assenza per malattia ed illegittima configurazione di tali circostanze quali elementi costitutivi della fattispecie di inadempimento dell’obbligo di tempestiva comunicazione e documentazione della malattia, posto dalla legge e dalla contrattazione collettiva esclusivamente a carico del lavoratore. La Suprema Corte, rigettando il ricorso proposto dalla società, ha sottolineato come la Corte territoriale ha accertato, facendo riferimento alla “copiosa documentazione versata in atti”, che la lavoratrice “già almeno da un anno precedente la data del suo licenziamento soffriva di disturbi d’ansia e di adattamento, con attacchi di panico, labilità emotiva esasperata, progressivamente aggravatasi fino ad evolvere in vera e propria sintomatologia depressiva...all’epoca del licenziamento stesso...” . Inoltre - precisano i giudici di legittimità - “le considerazioni svolte dalla Corte territoriale circa la giustificazione che l’omessa comunicazione della protrazione dell’assenza troverebbe nella effettiva prosecuzione della malattia appaiono svolte solo in via aggiuntiva, al fine di apprezzare ulteriormente l’effettiva gravità del comportamento censurato, laddove la ragione giustificativa essenziale della decisione è, in realtà, rinvenibile nell’esistenza di un comprovato e giustificato impedimento, idoneo, in base alla disciplina collettiva applicabile, a escludere la sanzionabilità disciplinare dei fatti addebitati.”.
(StudioCataldi - L.S.)  

 

Cassazione: previsto risarcimento se si è vittime di scippo nel tragitto casa- lavoro


Già di per sé recarsi al lavoro tutte le mattine non è proprio idilliaco, se poi ci si mette anche l’intoppo sgradevole di uno scippo, ecco che la giornata sarà rovinata per sempre. E di peggio ci potrebbe essere solo un capo sadico, che ci faccia scontare pure la pena di un eventuale ritardo con compiti insulsi e ingrati.

Per fortuna la Cassazione ha difeso una povera impiegata che aveva subito proprio uno scippo, riportando lesioni varie, e si era vista negare un qualsiasi tipo di indennizzo assicurativo; indennizzo che dovrebbe coprire appunto gli incidenti nel tragitto casa- lavoro, e viceversa.

La lavoratrice di Perugia, Elsa B., sia in primo sia in secondo grado, si era vista negare un rimborso perché “il fatto doloso di un’altra persona aveva interrotto il nesso causale fra la ripetitivita’ necessaria del percorso casa-ufficio e gli eventi negativi connessi”. Insomma colpa della lavoratrice l’aver spezzato la noiosa routine del tragitto, forse perché aveva azzardato il portare una borsa a tracolla e osare indossare dei tacchi, che le hanno fatto perdere l’equilibrio e riportare così abrasioni e, chissà, anche una fratturina. Eh, beh, cara sig.ra Elsa B. chi vuole bella apparire molto deve soffrire, lo dice un detto.

Per fortuna la sezione Lavoro della Cassazione, sentenza 15545, ha finalmente accolto la tesi difensiva della lavoratrice. La Suprema Corte ha così sottolineato che “e’ indennizzabile l’infortunio occorso al lavoratore “in itinere” ove sia derivato da eventi dannosi, anche imprevedibili ed atipici, indipendenti dalla condotta volontaria dell’assicurato, atteso che il rischio inerente il percorso fatto dal lavoratore per recarsi al lavoro e’ protetto in quanto ricollegabile, pur in modo indiretto, allo svolgimento dell’attività lavorativa, con il solo limite del rischio elettivo”. Quindi nel recarsi al lavoro è ammesso che ci possano essere delle “distrazioni” non previste, e nemmeno troppo gradite, per cui sia prevista la copertura assicurativa. Ed evitato naturalmente qualsiasi forma di ripercussione lavorativa. Elsa B. attende intanto che la Corte d’appello di Ancona ne riesamini il caso.
(StudioCataldi - Barbara LG Sordi)