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Trump beffato dal flipper dei dazi: altri Paesi prendono il posto dell'export cinese

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Secondo l'Unctad, i 250 miliardi di dollari di merci che non sbarcano più da Pechino a causa delle restrizioni commerciali non sono state sostituite da produzioni made in Usa. L'82% arriva dall'Europa, il 12% ancora dalla Cina e solo il 6% da prodotti americani. E la battaglia dei muri reciproci causa effetti imprevisti, come la crescita dell'esportazioni iraniane

 

di MAURIZIO RICCI

08 Febbraio 2019

 

La scadenza è per domenica 17 febbraio, quando l’amministrazione Usa annuncerà se i commerci di auto con l’Europa attentano o no alla “sicurezza nazionale”. La domanda è improbabile, ma il Sì è tuttavia probabile. Trump avrà allora tre mesi di tempo per scatenare una guerra commerciale, colpendo con dogane e tariffe le importazioni di auto europee. L’Europa risponderà con le sue dogane. Nel frastuono delle sciabole, resta inevasa la domanda: a chi servono dazi e tariffe? La risposta che hanno dato, questa settimana, gli economisti dell’Onu è semplice e disarmante: agli altri. Come succedeva nelle guerre (vere) di una volta, i profitti di una guerra commerciale finiscono ai paesi risparmiati dallo sforzo bellico: gli spettatori, i neutrali. L’esperienza di una guerra commerciale in corso, infatti, l’abbiamo. E’ quella Usa-Cina e, secondo gli economisti dell’Unctad – l’organismo Onu che si occupa di commercio internazionale - quella guerra, è un regalo all’Europa e agli altri neutrali. Per le imprese della Ue significa 70 miliardi di dollari di esportazioni in più. Al confronto, quel che l’offensiva anti-Pechino di Trump lascia alle imprese americane, che vorrebbe difendere, sono le briciole.

 

Sembra un paradosso, ma è, secondo l’Unctad, il risultato inevitabile di un anno di sberle doganali: le importazioni divenute troppo care per via dei dazi non vengono sostituite dalla produzione nazionale, ma con importazioni da altri paesi non sottoposti a dogana. A meno, naturalmente, di non applicare dazi a 360 gradi, una strada scivolosa e autopunitiva, sulla quale, finora, neanche Donald Trump ha ritenuto di avventurarsi. Per il momento, dunque, i 250 miliardi di dollari di merci che non sbarcano più dalla Cina, per via dei dazi della Casa Bianca, arrivano in America per l’82 per cento da altri paesi: Europa in testa, poi Messico, Canada, Vietnam. Il 12 per cento continua ad arrivare comunque dalla Cina e solo il 6 per cento viene sostituito da un rivitalizzato made in Usa. Idem sul fronte opposto. Dei 110 miliardi di merci americane colpito dalle tariffe di Pechino, solo il 5 per cento sono sostituite dal made in China. Il 10 per cento continua ad arrivare comunque dall’America e l’85 per cento, invece, viene venduto da altri paesi.

 

Per i neutrali, la bonanza arriva soprattutto dagli Stati Uniti. Le imprese europee assorbono circa 50 miliardi di dollari di esportazioni verso gli Usa che, fino a ieri, erano cinesi, più 20 miliardi di export ex americano verso la Cina. In cifra assoluta e, relativamente, per singoli settori, sono cifre importanti. Ma, sul totale dell’export europeo nel resto del mondo è solo poco meno dell’1 per cento. Assai più significativi i guadagni per altri attori. I 20 miliardi di dollari a testa di esportazioni in più che mettono a segno, rispettivamente, Messico, Giappone e Canada, valgono quasi il 6 per cento delle esportazioni totali messicane, il 2, 3 per cento di quelle giapponesi, il 3,4 per cento di quelle canadesi. Per il Vietnam, candidato a sostituire la Cina su molte linee di assemblaggio, si prevede un guadagno equivalente al 5 per cento dell’export. L’ultima beffa – per Trump – riguarda l’Iran degli odiati ayatollah: di rimbalzo, per via delle tariffe cinesi sui prodotti americani, le esportazioni di Teheran verso Pechino cresceranno dello 0,7 per cento.

 

E’ un caso classico di conseguenze non volute. E, alla fine, le sentiranno tutti. Già così, la guerra commerciale Usa-Cina sta devastando le filiere internazionali di fornitori su cui, oggi, si fonda il 70 per cento del commercio mondiale: l’Unctad calcola che il fatturato di queste catene di valore sia destinato a restringersi di 160 miliardi di dollari, tagliando di un terzo o un quarto la crescita annuale globale dei traffici. Ma gli effetti rischiano di farsi sentire già oggi sulle decisioni di investimento delle grandi aziende, soprattutto se un mondo all’ombra delle tariffe verrà vissuto come permanente.

 

Il protezionismo, del resto, è un atteggiamento mentale che va ben al di là di dazi e dogane. Lo vediamo già in marcia, anche al di fuori degli Stati Uniti, nella diffidenza verso le aziende estere che sbarcano all’interno dei confini e anche – l’ultima, in materia, è la Germania – nella rinnovata passione per l’allevamento protetto – quasi in serra, si potrebbe dire – di campioni nazionali in settori in cui l’industria interna è carente, quasi sulla falsariga della tanto deprecata “via cinese allo sviluppo”.

 

(La Repubblica)