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Dopo Milano indaga anche Taranto, la via giudiziaria al disastro dell’ex Ilva

I commissari dell’azienda denunciano la proprietà indiana: “Grave nocumento alla produzione nazionale”

Alessandro Barbera

Pubblicato il 16 Novembre 2019

Ultima modifica 16 Novembre 2019 16:11

 

Prima la Procura di Milano, ora quella di Taranto. In attesa di un accordo in extremis fra le parti, lo Stato italiano sceglie la via giudiziaria contro Arcelor-Mittal. Oggi i commissari straordinari della ex Ilva hanno consegnato al capo della Procura pugliese Carlo Maria Capristo e al suo aggiunto Maurizio Carbone un esposto-denuncia che ipotizza la violazione dell’articolo 499 del codice penale. Non un’accusa da poco: la norma punisce con reclusione da tre a dodici anni «chiunque, distruggendo materie prime, prodotti agricoli o industriali, ovvero mezzi di produzione, cagiona un grave nocumento alla produzione nazionale» o «fa venir meno in misura notevole merci di comune o largo consumo».

 

L’annuncio repentino degli indiani di rinunciare all’affitto dello stabilimento Ilva dà qualche argomento all’accusa. Ma è arduo dire se la multinazionale si farà spaventare da un procedimento giudiziario. Se c’è una ragione che ha spinto l’azienda a fare un passo indietro è stato proprio l’eccesso di vincoli giuridici: prima attorno allo scudo legale (messo e tolto due volte da quattro governi diversi), poi rispetto alle prescrizioni della magistratura sul funzionamento dell’Altoforno due, il più strategico per la produzione dell’acciaio in quello stabilimento.

 

Il ministro dello Sviluppo Cinque Stelle - Stefano Patuanelli - ha subito applaudito alla decisione della Procura. Ha ragione di farlo: accusare l’azienda di inadempienza fa passare in secondo piano il disastro combinato dalla maggioranza, incapace di trovare un accordo che permettesse di confermare lo scudo penale per i nuovi manager. I sindacati insistono perché il premier Conte convochi al più presto la proprietà indiana, ma finché non ci sarà un accordo fra i partiti su come risolvere i problemi posti da Mittal (scudo penale e garanzie sul pieno funzionamento del secondo altoforno) non c’è alcuna speranza che recedano dalla volontà di lasciare l’Italia, fosse subito o a maggio.

 

E’ per questo che il governo si prepara al peggio: un prestito-ponte, una nuova gara e la speranza di trovare un nuovo affittuario per lo stabilimento. Ma ci sono speranze che ciò avvenga? I concorrenti indiani di Mittal - i Jindal – hanno già detto di non essere interessati. I cinesi sono impegnati nel dossier British Steel, né sembrano esserci altri grandi gruppi pronti a farsi carico dell’enorme stabilimento pugliese e dei suoi eterni problemi.

 

Nel frattempo la situazione non fa che deteriorarsi. Oggi le imprese dell’indotto ex Ilva hanno annunciato che non manderanno più il proprio personale a lavorare nei cantieri siderurgici, né effettueranno attività per conto della società. L’accusa è quella che di solito viene rivolta allo Stato: il ritardo nel pagamento delle fatture.

 

Twitter @alexbarbera

(La Stampa)