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Codice della crisi, i benefici superano i costi

Le nuove norme su fallimenti e insolvenze porteranno alle piccole e medie imprese italiane vantaggi per 9,9 miliardi, maggiori rispetto agli investimenti richiesti e stimati a 6 miliardi. A dirlo è il Rapporto Cerved Pmi 2019, che fotografa pmi solide

Pagine a cura di Roxy Tomasicchio

Dall'analisi costi benefici, il nuovo Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza (Ccii), operativo da agosto del prossimo anno, porterà alle piccole e medie imprese italiane vantaggi maggiori rispetto agli investimenti richiesti. Il sistema, infatti, riuscirà a evitare che molte imprese vadano in default, potrà essere un'occasione per digitalizzare le pratiche gestionali e migliorare la cultura finanziaria e, infine, a fronte di costi a carico delle pmi che possono arrivare fino a 6 miliardi, arriveranno benefici quantificati in 9,9 miliardi. In linea generale, comunque, non c'è da temere il peggio: le imprese italiane sono solide, malgrado lo slancio della ripresa, iniziata nel 2013, sia in frenata. E lo sono proprio in rapporto agli indicatori di alert della nuova legge fallimentare. Cosa può minare la solidità finanziaria? Ancora una volta, la nota dolente sono i tempi di pagamento. Dopo una lunga fase di miglioramento, nel corso della prima metà del 2019 sono tornati a crescere i ritardi e i tempi medi di evasione delle fatture delle pmi. Questo è stato accompagnato da un aumento dei mancati pagamenti e dei gravi ritardi, situazioni che nei prossimi mesi possono sfociare in default. A delineare questo quadro è il Rapporto Cerved Pmi 2019, quest'anno focalizzato sul nuovo Ccii, che ha riformato la disciplina dei fallimenti introducendo le procedure di allerta, e a cui Cerved ha contribuito in qualità di partner scientifico del Consiglio nazionale dei dottori commercialisti e degli esperti contabili nell'elaborazione degli indici della crisi.

Costi e benefici del Ccii. Rispettare le norme del nuovo Codice significa fare investimenti, che tradotto significa costi. Per esempio per individuare i fondati indizi della crisi e garantire continuità aziendale, con interventi quali l'acquisto di software. O ancora costi di formazione e per il personale. Infine costi per dotarsi di strutture di controllo e revisione (si va dalla nomina di sindaci/revisori alla remunerazione delle maggiori responsabilità assegnate ai professionisti).

Più nel dettaglio, tra gli strumenti e i costi per individuare i fondati indizi della crisi occorre inserire l'adozione di un assetto organizzativo adeguato a rilevare per tempo le avvisaglie di qualche conto che non torna. Quindi le imprese dovranno avere sistemi di Erm (enterprise risk management) per monitorare il proprio rischio di default, dovranno acquisire nuove competenze di risk management e dovranno dotarsi di organi di revisione e controllo. Una prospettiva del tutto nuova per il sistema imprenditoriale italiano, abituato a navigare a vista. Tutto ciò, secondo stime elaborate da Cerved intervistando un panel di professionisti, costerà circa 3,8 miliardi di euro all'anno, di cui 2,2 miliardi a carico delle pmi. La cifra è destinata a salire a 6 miliardi (di cui 2,5 miliardi a carico delle pmi e altri 2,5 miliardi delle microimprese) con l'introduzione di sistemi di tesoreria, utili a dare indicazioni tempestive sulla capacità delle imprese di disporre della liquidità necessaria per i successivi 6/12 mesi. Ossia le imprese dovranno essere in grado di calcolare il Dscr (Debt service coverage ratio), che è uno degli indicatori che individua in anticipo le situazioni di difficoltà e che mette in relazione i flussi di cassa e gli impegni finanziari a servizio dei creditori (in un'azienda sana il cash flow deve poter far fronte alle obbligazioni). Per una piccola impresa, i costi si attesterebbero a circa 15-20 mila euro all'anno; per una media i costi raddoppierebbero.

«Le stime vanno prese con cautela», ha però spiegato Andrea Mignanelli, amministratore delegato di Cerved, «anche per l'incertezza sulla concreta applicazione delle nuove norme. Se si affronterà la riforma in una logica di mera compliance, affidandosi esclusivamente agli indici di bilancio, i costi supereranno di gran lunga i benefici. Al contrario, se verranno adeguati realmente i modelli organizzativi, il sistema potrà salvare molte imprese dal default e permettere tassi più alti di recupero degli attivi nelle società comunque destinate a uscire dal mercato. La diffusa adozione di sistemi Erm», ha aggiunto l'a.d., «avrebbe importanti ricadute sulla trasparenza delle piccole e microaziende solide, che pagherebbero meno il denaro e potrebbero accedere a maggiori prestiti per oltre un miliardo. In tutto ciò, ovviamente, un ruolo importante sarà giocato dal sistema bancario». Procedure di emersione e di gestione efficace dello stato di crisi, hanno spiegato dal Cerved, possono generare benefici consistenti per il sistema economico: da un lato, supportando le imprese a superare una fase di difficoltà finanziaria per ristrutturarsi e tornare in attivo; dall'altro, tutelando il valore dei cespiti delle imprese per cui la crisi è invece irreversibile, attraverso procedure più rapide ed efficaci. Non solo. Una diffusione più ampia dei sistemi Erm, cioè di modelli di gestione del rischio aziendale, non solo permette di intercettare precocemente le crisi, ma possono orientare le scelte relative agli investimenti e alle politiche di finanziamento, alla composizione delle fonti, al loro costo. Sono strumenti in grado di rendere le piccole imprese, a cui le banche applicano oggi tassi di interesse poco correlati con il loro rischio di default, più trasparenti. In soldoni si traduce in oltre un miliardo di maggiori prestiti alle piccole e alle microaziende solide, che pagherebbero meno il denaro, e in un effetto netto sul valore aggiunto quantificabile in altri 1,3 miliardi.

In altre parole, il codice della crisi offre un'occasione per formalizzare e digitalizzare le pratiche gestionali delle Pmi e per migliorare la loro cultura finanziaria. Diversi operatori possono accompagnare le imprese in questo percorso. Un ruolo importante può essere giocato dal sistema bancario, che potrebbe integrare nei propri sistemi di early warning gli strumenti di valutazione adottati dalle imprese per ottemperare alla riforma. La disponibilità di flussi rilevanti di informazioni già digitalizzate provenienti dalla fatturazione elettronica o dai movimenti dei conti correnti grazie alla Psd2 potrebbero ridurre i costi di acquisizione dei dati e rendere più agevole questo passaggio.

I ritardi nei pagamenti. L'Italia continua a evidenziare tempi di pagamento molto più alti rispetto agli altri paesi europei. Basti pensare che se i tempi si allineassero a quelli della Germania, si renderebbero disponibili risorse per 181 miliardi a favore delle pmi. Di questi circa 40 miliardi di euro, potrebbe finanziare società che faticherebbero a finanziare il circolante con capitale bancario, ma che potrebbe beneficiare dello smobilizzo delle fatture tramite soluzioni Fintech.

I ritardi accumulati sul pagamento di una fattura si prestano a una doppia lettura: possono essere un segno che anticipa situazioni di difficoltà finanziaria da parte di un'impresa, dal momento che questa non è in grado di onorare con puntualità gli impegni presi con i fornitori. In altri casi, il ritardo nel pagamento di una o più fatture può anche rientrare nelle politiche aziendali di gestione della liquidità, in particolare quando questa prassi non compromette i rapporti commerciali con i propri fornitori. Fatta questa premessa, i ritardi sono in aumento. Nel secondo trimestre le pmi hanno accumulato in media 9,71 giorni di ritardo, circa 0,7 giorni in più rispetto allo stesso periodo del 2018 (9).

I dati sui giorni di ritardo per dimensione di impresa indicano tendenze simili per le piccole e medie aziende, con le prime che fanno registrare un incremento meno sostenuto (da 8,9 giorni ai 9,5 giorni di metà 2019) e le seconde che invece passano dai 9 ai 9,9 giorni di metà 2019. In crescita di 0,9 giorni (da 13,8 giorni ai 14,7 giorni di metà 2019) anche i ritardi delle grandi imprese, che fanno aumentare lievemente il divario rispetto ai giorni di ritardo delle pmi (14,7 contro 9,7 giorni).

I tempi medi con cui le pmi saldano le proprie fatture sono risultati in calo fino alla fine del 2018, grazie sia a una riduzione delle scadenze concordate (a metà 2018 hanno toccato la quota minima di 58,4 giorni), sia a una riduzione dei giorni di ritardo. Nel 2019 i tempi di pagamento hanno però ripreso ad aumentare attestandosi a 69,1 giorni a giugno, rispetto ai 67,4 giorni rilevati a metà 2018. Entrambe le componenti che incidono sui tempi di pagamento hanno evidenziato aumenti, con le scadenze concordate che hanno toccato quota 59,3 giorni (+0,9 su base annua) e i ritardi 9,7 giorni (+0,7 su base annua).

All'aumento dei tempi di pagamento corrisponde da una distribuzione che si sposta verso tempi più lunghi, con una leggera riduzione

Imprese solide. Secondo il precedente Rapporto Cerved Pmi, in Italia nel 2017 la ripresa economica si era consolidata, con un'accelerazione dei ricavi e della redditività delle imprese, in un contesto di grande solidità finanziaria. I dati del nuovo report indicano invece come nel 2018 e nella prima parte del 2019 la crescita del fatturato e dei profitti si sia fermata, senza però incidere negativamente sui profili di rischio delle aziende, ulteriormente migliorati rispetto all'anno precedente.

Nel dettaglio, nel 2018 il fatturato delle pmi è cresciuto del 4,1% in termini nominali ma è rimasto poco sopra i livelli del 2017 in termini reali (+0,7%), con un rallentamento che ha riguardato tutti i settori tranne le costruzioni, in ripresa dopo anni di forte debolezza. Il valore aggiunto è cresciuto (+4,1%) a ritmi più ridotti dei costi del lavoro (+5,6%), con effetti negativi sulla produttività e sui margini delle pmi. La ripresa della redditività lorda si è quasi fermata: i margini lordi sono cresciuti dell'1,2% tra 2017 e 2018 (era il 3,2%).

In futuro, le attese sono di una crescita dell'economia italiana debole, al di sotto di un punto percentuale in termini reali nel prossimo triennio. Queste dinamiche si riflettono sulle prospettive per le pmi: secondo le previsioni, i fatturati segneranno una netta frenata nel 2019, per poi accelerare solo leggermente nel successivo biennio. La redditività lorda sarà sostanzialmente ferma nel corso del 2019 per poi crescere a ritmi lenti. Gli indici di redditività subiranno un'ulteriore flessione: nel 2021, al termine del periodo di previsione, il roe si attesterà al 10,4% (dall'11% del 2018).

Nonostante questo scenario, la resilienza del nostro sistema di pmi caratterizzerà anche i prossimi anni: il rafforzamento patrimoniale e il calo della rischiosità dovrebbero proseguire, anche se a ritmi più lenti rispetto al passato. Il rapporto tra debiti finanziari e capitale netto è atteso al termine del periodo al 61,6% (63,2% nel 2018), il rapporto tra debiti finanziari e mol dovrebbe attestarsi sui livelli correnti.



18/11/2019

(Italia Oggi)