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Il business degli aiuti della Banca Mondiale: 7,5 dollari su cento finiscono nei paradisi fiscali

Un report prodotto dagli stessi ricercatori della World Bank mette in luce il flusso di denaro. E apre il caso: prima la capo-economista viene spinta alle dimissioni dai piani alti, poi la ricerca viene pubblicata sotto il pressing politico

 

di MAURIZIO RICCI

22 Febbraio 2020

 

Siccome sono tutte persone molto ben educate, la cosa non ha fatto tutto il rumore che avrebbe potuto fare. Ma sembra la trama di uno di quei film americani di protesta civile, in scena al Sundance Festival, magari di e con Robert Redford. Un gruppo di ricercatori, con la benedizione del loro capo, scopre qualcosa di assai imbarazzante per la ditta. Ai piani alti la faccenda piace pochissimo e la pubblicazione della ricerca viene bloccata. Per protesta, il capo dei ricercatori si dimette e torna all'università da cui era venuta. Lieto fine: sotto la pressione della polemica, la ricerca viene pubblicata.

 

In effetti, lo studio, fermo da dicembre, è su Internet da martedì pomeriggio. Ma Penny Goldberg/Robert Redford tornerà lo stesso alla sua cattedra a Yale, già fra una settimana. Con la bocca cucita, ma carica di disillusioni verso quello che è stato, per non più di qualche mese, il suo datore di lavoro: la World Bank. Perché è proprio la Banca Mondiale, una delle istituzioni più buoniste, impegnata a distribuire soldi ai paesi in difficoltà, a recitare la parte del cattivo nella trama, fino a spingere alle dimissioni la propria capoeconomista, in carica da poco più di un anno. E anche la decisione di pubblicare, alla fine, la ricerca, ha più il sapore di una resa, che di un ripensamento. Del resto, che per i vertici della World Bank si trattasse di un boccone difficile da digerire, si capisce fin dal titolo dello studio che avevano tentato di insabbiare: "Come le élite catturano l'aiuto estero". Ovvero, dove finiscono davvero i nostri soldi. Volete saperlo subito? In qualche paradiso fiscale.

 

Opera di tre economisti nordeuropei, la ricerca riprende l'idea di uno studio assai simile, che gli stessi ricercatori avevano sviluppato quattro anni fa. Allora, si trattava del petrolio o, meglio, dei petrodollari. Dove finiscono i soldi che un paese produttore incassa vendendo il suo greggio sul mercato internazionale? In misura significativa, in un paradiso fiscale. E allora gli aiuti esteri? Idem: le classi dirigenti dei paesi in questione ne intercettano una cospicua fetta e la dirottano nei propri conti personali offshore.

 

Joergen Andersen, Niels Johanesen e Bob Rijkers hanno preso la banca dati dei progetti finanziati dalla World Bank in 22 dei paesi più poveri e hanno incrociato i risultati con le statistiche della Banca dei regolamenti internazionali sui flussi di fondi da quei paesi verso Germania, Francia, Svezia, paesi di specchiata trasparenza bancaria, ma anche Svizzera, Lussemburgo, Isole Cayman e Singapore, dove i conti correnti trasparenti non sono affatto. Hanno così scoperto che, nel trimestre in cui un paese riceve finanziamenti dalla World Bank per realizzare un qualsiasi progetto, i depositi di residenti di questi paesi nei paradisi fiscali in questione aumentano il 3 per cento in più di quanto avvenga per paesi che non hanno ricevuto alcun aiuto. I flussi sono assai selettivi: Cayman sì, Francia no. Soldi in più, nelle banche tedesche, francesi o svedesi, infatti, da quei paesi non arrivano affatto.

 

Qui, non si tratta di tangenti o bustarelle. Piuttosto, di mani leste: nel redistribuire i finanziamenti ottenuti dalla World Bank, politici, dirigenti, funzionari del paese ricevente trattengono una sorta di "commissione" illegale, clandestina e anche molto corposa. Andersen, Johanesen e Rijjkers calcolano che, mediamente, il 7,5 per cento dell'aiuto erogato dalla Banca Mondiale non raggiunga affatto imprese e lavoratori impegnati nei progetti approvati, ma venga imboscato dalle élite locali. E' una media, peraltro. Più disperato il paese, più alto il finanziamento della World Bank e, dice lo studio, più grossa la fetta che i potenti locali si ritagliano. Nei paesi più dipendenti dagli aiuti esteri, sostengono i tre ricercatori, questo storno può arrivare al 15 per cento.

 

I dati della Bri sono dei totali e, quindi, non consentono di risalire a chi, effettivamente, ha depositato i soldi. Tuttavia, i sospetti sono circostanziati e gli indizi pesanti. 1) Il flusso dei fondi coincide sistematicamente con l'erogazione degli aiuti da parte della World Bank. 2) I conti nei paradisi fiscali li hanno i componenti delle élites, non certo i poveracci. 3) Se i beneficiari fossero, invece, le imprese regolarmente pagate per realizzare i progetti approvati dalla World Bank, com'è che neanche un dollaro finisce in paesi fiscalmente normali, come Germania e Francia?

 

Il lieto fine, insomma, consiste nel fatto che, alla fine, la ricerca è stata pubblicata, ma non nel suo contenuto. Ora che, per quanto riluttante, la World Bank ha accettato di aprirsi alla discussione, c'è da capire come si possa monitorare con più efficacia l'utilizzo effettivo degli aiuti ai paesi poveri.

 

(La Repubblica)