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Gli italiani primi in Europa per paura di perdere il lavoro

E' quanto emerge dall'indagine trimestrale di Randstad Wokmonitor. Un timore che attraversa in primo luogo i più giovani, che hanno contratti meno vincolanti. Di fonte alla possibile disoccupazione gli italiani si dividono a metà: chi spera in una aiuto da parte dell'azienda, chi in un sostegno governativo. La maggior parte (81%) si dice pronta ad affrontare la sfida digitale, ma chiede più formazione

 

di BARBARA ARDU'

30 giugno 2020

 

ROMA - La paura attraversa il mondo del lavoro italiano. Passati i timori per il virus, che operava sulla carne viva, ora siamo i primi in Europa a essere terrorizzati all'idea di perdere il posto nel post Covid. E non c'è tanto da stupirsi. L'Italia arrancava prima e ora continua ad arrancare nonostante la liquidità messa a disposizione dalla Bce e gli interventi del governo per sostenere cittadini e imprese in difficoltà. Ma tant'è e sei italiani su dieci temono che le loro aziende non riescano a risollevarsi dal lockdown forzato, che ha diminuito i consumi e messo alla prova interi settori e si dicono convinti che la pandemia abbia già diffuso il suo impatto negativo sulle aziende. E su un eventuale stato di disoccupazione si dividono a metà: il 52% conta su un aiuto dell'impresa, il 54% spera in un sostegno del governo.

 

L'impatto negativo del virus gli italiani d'altra parte l'hanno già intravisto sulla modalità con cui sono stati costretti a lavorare. Un timore, quello di perdere il posto, che registra percentuali più basse in tutte le altre nazioni europee. Più diffuso solo in in Cina, Hong Kong e India e che riguarda soprattutto le fasce più giovani di età, quelle più precarizzate, tant'è che l'84% dei ragazzi tra i 18 e i 24 anni è preoccupato di rimanere disoccupato. Esclusi natualmente coloro che già lo hanno perso o non lo cercano più. È quanto emerge dall'ultima edizione del Randstad Workmonitor, l'indagine sul mondo del lavoro di Randstad, primo operatore mondiale nei servizi HR, condotta a maggio in 15 Paesi del mondo su un campione di oltre 400 lavoratori di età compresa fra 18 e 67 anni per ogni nazione, che lavorano almeno 24 ore alla settimana e percepiscono un compenso economico.

 

Oltre alle difficoltà per le imprese e l'insicurezza per i lavoratori, il Covid19 ha però anche accelerato la diffusione di soluzioni digitali e di modelli di organizzazione del lavoro più evoluti. Secondo la maggioranza dei dipendenti, l'azienda in cui lavora li sta aiutando ad adattarsi, investendo in nuove tecnologie e soluzioni digitali (62%), fornendo gli strumenti necessari a lavorare da casa o da un altro luogo al di fuori dell'ufficio (59%) e mettendo a disposizione piani di formazione su strumenti e competenze digitali (61%). Sono numeri ancora inferiori alla media globale e ai risultati dei Paesi più avanzati sul digitale, ma evidenziano come le imprese stiano reagendo positivamente all'emergenza. E i lavoratori mostrano la stessa reattività: il 70% afferma di essersi adattato alla nuova situazione lavorativa, l'80% si sente pronto alle nuove modalità di lavoro digitale.

 

"L'emergenza Covid19 ha portato una nuova normalità, costringendo le imprese a riorganizzare rapidamente attività e modalità di lavoro e generando insicurezza nei lavoratori - afferma Marco Ceresa, aministratore delegato di Randstad Italia -. La crisi ha imposto un'accelerazione sul fronte della digitalizzazione e di modelli organizzativi più agili e ci vorrà del tempo per completare la transizione alla nuova realtà, ma i risultati del Workmonitor sono incoraggianti. Le imprese stanno aumentando gli investimenti in soluzioni digitali e in formazione per mettere i lavoratori nelle condizioni di adattarsi alla nuova realtà lavorativa, e cresce anche l'attenzione al benessere emotivo dei dipendenti (indicata dal 70% del campione) e al work-life balance (69%)".

 

Il lavoro al tempo del Covid è infatti soprattutto digitale e gli italiani si sentono pronti alla sfida: l'80% si sente all'altezza (+1% sulla media globale), secondi in Europa dopo i portoghesi (90%), senza evidenti differenze fra generi e fasce anagrafiche. Secondo l'83% del campione è però l'azienda che deve mettere a disposizione del dipendente una formazione digitale, tre punti in più della media globale e al primo posto in Europa. I più convinti sono gli uomini (85%, contro l'81% delle colleghe) e i dipendenti nella fascia 45-54 anni (86%) e 55-67 anni (85%). Più a corto di competenze digitali rispetto ai Millenian e alle nuove generazioni.

 

E come hanno risposto le aziende? Si stanno attrezzando per rispondere alle aspettative dei lavoratori e garantire la continuità operativa. Secondo il 62% dei dipendenti, il proprio datore di lavoro sta investendo in nuove tecnologie e soluzioni digitali (-3% rispetto alla media globale). Per il 59% l'azienda fornisce gli strumenti necessari a svolgere il lavoro da casa (-5% sulla media mondiale). Per il 61% l'impresa sta investendo in formazione su competenze e strumenti digitali per aiutare i dipendenti a operare in emergenza. Per il 63%, infine, il datore di lavoro organizza frequenti riunioni virtuali per informare e coordinare il team di lavoro (-3% rispetto alla media mondiale). Non resta che attendere l'autunno.

 

(La Repubblica)